Fin dal suo nascere l’ondata globale di indignazione contro le molestie aveva in sé il germe della gogna, del capro espiatorio. Ma all’inizio l’elemento più evidente era la rottura di uno schema insopportabile: usare il proprio potere in ambito lavorativo per ricattare. Migliaia e migliaia di donne nel mondo hanno detto di no, hanno urlato la loro rabbia, hanno raccontato la loro storia. Una cosa è denunciare le molestie Altra cosa è la gogna mediatica

Ma come spesso accade in queste vicende ci sono stati almeno tre effetti boomerang che non vanno sottovalutati.

Il primo è quello della “vittimizzazione” di coloro che raccontano. È come se improvvisamente tutte le donne fossero diventate vittime, incapaci di difendersi e di avere un ruolo pubblico. Non è stata la loro denuncia a far scaturire questo elemento, ma una retorica che tende a descrivere chi subisce una violenza come soggetto debole. L’attenzione è stata spostata dai molestatori, e soprattutto dalla cultura che questi esprimono, alle donne che hanno invece preso coraggio e hanno denunciato. Un’attenzione, è importante ricordarlo, che ha oscillato tra vittimizzazione e colpevolizzazione: è quello che è accaduto con Asia Argento, in Italia presa di mira perché avrebbe parlato troppo tardi. Alla fine sul banco degli imputati c’è salita pure lei.

Il secondo effetto boomerang è quello del moralismo: la denuncia delle molestie non diventa occasione per ripensare il rapporto tra i sessi e per renderlo più libero, più consapevole, ma diventa l’occasione per chiedere una stretta sui costumi sessuali. Si ottiene in qualche modo l’effetto opposto di quello desiderato, relegando la libertà sessuale a questione secondaria se non pericolosa, quando invece dovrebbe essere l’orizzonte auspicato.

Il terzo effetto boomerang è quello della gogna, del processo mediatico, processo di per sé sommario, feroce e fondato sul capro espiatorio. Nel caso Weinstein, come dicevano all’inizio, questi due elementi si sono da subito mescolati, ma alla fine la gogna ha prevalso anche nei confronti del famoso produttore hollywoodiano. L’importante non è capire cosa sia accaduto, denunciare la cultura da cui scaturiscono le violenze, ma lapidare il colpevole, “quel” colpevole, considerato il mostro, il responsabile di tutte le violenze del mondo. Da quel momento in poi la macchina della gogna non si è più fermata. Questo non significa sminuire le responsabilità del singolo né colpevolizzare, come pure è stato fatto, coloro che denunciano. No, non si vuole cadere in questo tranello.

Ero e resto convinta che la denuncia di tante donne abbia una spinta positiva, sia un urlo che non viene dal passato, ma da una nuova consapevolezza di chi non vuole più subire e vuole sentirsi libera di agire nel mondo. Ma questa spinta non deve impedire di vedere il resto. Lo dimostrano i casi di Dustin Hoffman e di Kevin Spacey. Contro i due attori è in atto una vera e propria psicosi punitiva, con accuse che arrivano dal passato remoto. Kevin Spacey ha subito finora il linciaggio più violento: è stato rescisso il contratto per la nuova serie di House of cards e gli è stato revocato l’International Emmys Founders Award, prestigioso premio per le serie tv.

Hollywood incapace di fare una riflessione sulle logiche di potere che reggono il mondo del cinema ha preferito usare la solita scorciatoia: dare addosso ai colpevoli o presunti tali, dandoli in pasto al linciaggio virtuale. Si può pensare che se lo siano meritati, si può confondere vita privata e capacità professionali o artistiche, si può pensare di punire senza pietà. Si possono pensare tutte queste cose ma così si rischia di pensare che la vendetta sia l’unica arma per cambiare le cose, quando secoli di storia dimostrano il contrario. Questo vale anche per le molestie e le violenze. Giusto denunciare, quando, come si può e si vuole. Altra cosa è confondere la presa di parola pubblica delle donne con questa smania di radere al suolo chiunque abbia sbagliato, sottoponendolo al giudizio spietato del web.