I segretari della Lega passano, Giancarlo Giorgetti resta. Deputato da 25 anni, il ministro dello Sviluppo economico ha praticamente attraversato tutte le fasi del Carroccio: uomo di fiducia di Umberto Bossi (di cui dice «il 99 per cento di quello che so l'ho imparato da lui»), al fianco di Roberto Maroni dopo le scope che spazzarono via la storia della prima Lega ( il nuovo segretario gli chiese di cancellare le varie società in capo alla precedente “gestione”) e per lungo tempo gran suggeritore di Matteo Salvini (il “Richelieu” del capitano, veniva definito, che aveva reso possibile la nascita del governo giallo-verde). Bocconiano ma senza sangue borghese, legatissimo alla sua Cazzago Brabbia (Va) e allo stesso tempo tifoso sfegatato degli inglesi del Southampton (da quando, da bambino, scelse casualmente quella squadra per giocare a subbuteo), personaggio schivo e allo stesso tempo potentissimo. È questo per grandi linee il profilo di Giorgetti, diventato il nuovo incubo di Salvini, lo stratega che vorrebbe riportare la Lega ai vecchi confini naturali segnati dal Po e traghettarla contemporaneamente all’interno della famiglia popolare europea.

Un progetto opposto alla visione nazionale e sovranista del segretario che in questi anni ha trasformato il Carroccio nel primo partito d’Italia, snaturando il progetto iniziale. Per questo il ministro dello Sviluppo economico ha scelto di uscire dall’ombra in cui si è sempre trovato a proprio agio e sfidare il numero uno del suo partito asserragliato sulla “linea Morisi”.

La pandemia e l’arrivo di Mario Draghi, che Giorgetti vorrebbe Palazzo Chigi per i prossimi «sette anni», hanno cambiato le carte in tavola e convinto i moderati del Carroccio a uscire allo scoperto per porre fine alle ambiguità di un leader che di giorno dice sì al green pass e la sera strizza l’occhio ai no vax. Così, i governatori del Nord, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga in testa, in prima linea nel contrasto al Covid nei giorni peggiori e direttamente preoccupati per la ripresa economica, hanno deciso di seguire il vecchio segretario della Lega lombarda: quel Giorgetti razionale e ponderato che Giorgio Napolitano volle nel “Gruppo dei dieci saggi” incaricato di proporre un programma di riforme istituzionali ed economiche attorno al quale radunare una maggioranza parlamentare nel 2013.

Il partito del Nord sta dunque con l’influente col ministro, che a sua volta ha stretto un patto di fedeltà con Draghi per proseguire sul cammino delle riforme richieste da Bruxelles per accedere ai fondi del Next generation Eu. Ma un conto è accordarsi in un Palazzo, un altro avere la forza politica per tener fede a un impegno. Ed è qui che nascono le incognite sulla possibilità di successo della “congiura moderata” leghista. Giorgetti è molto abile a muoversi tra i meandri di Palazzo Chigi ma non ha grandi truppe parlamentari al seguito.

I governatori, dal canto loro, oltre al potere hanno anche il consenso, ma è geograficamente “limitato”, nulla di paragonabile al 34,4 per cento portato a casa da Salvini alle Europee del 2019. Non solo, il segretario può contare anche sul sostegno di una nuova base, ampia, lontana dai confini classici del partito, che inizia a radicarsi anche al Sud. E senza truppe appare complicato riuscire a contendere una leadership a un segretario ancora forte, anche se assediato da Giorgia Meloni all’esterno e azzoppato dall’incidente occorso al suo più stretto collaboratore. A meno che Giorgetti e i suoi non siano disposti a scendere dal Carroccio per dar vita a una nuova forza autonomista, con solide radici settentrionali ma ancorata all’Europa dei Popolari, per rianimare il vecchio progetto leghista in chiave 2021. Ma sarebbe una scommessa al buio che comunque non metterebbe Draghi al sicuro da possibili contraccolpi di maggioranza.

Agli anti sovranisti non resta che attendere dunque il risultato delle Comunali e sperare in una debacle del salvinismo per aprire un confronto interno e disarcionare il segretario. La partita è appena cominciato e qualcuno ne uscirà necessariamente sconfitto.