“Ci sarà pure un giudice a Berlino”. La frase, attribuita a Bertolt Brecht, è l’accorata speranza di un uomo qualunque che confida in una giustizia imparziale. Lui, un mugnaio, la trovò, in Federico II il Grande, re di Prussia. E la trovò nel XVIII secolo. Nel XXI troppo spesso non succede. E imperversa l’errore giudiziario. Che è argomento tabù, con la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di chi – pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica – presume d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, si crede investito della missione di anticipare in terra il giudizio divino. Numerose le Procure nelle quali sono incrostate sacche di resistenza, con personaggi per nulla intenzionati a schiodarsi dalla destra del Padre, che pure tira calci per non averceli al fianco, e ossessionati dalla smania malaticcia di ottenere risultati, meglio se eclatanti, su nomi di rilievo, in grado di smuovere carriere che altrimenti stenterebbero. L’errore giudiziario merita approfondimenti. Occorre ripristinare la verità completa, correggendo i numeri, fin qui calcolati per difetto.

I dati

Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24 mila rimborsi per ingiusta detenzione e che la cifra corrisposta fu di 648 milioni di euro, con la maggiore incidenza in Calabria. Il dato si è mantenuto pressoché costante, come si evince dalle relazioni annuali del ministero della Giustizia al Parlamento. E la media annuale di 1.000 indennizzi riparatori, comunque allarmante, porta a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. Sbagliato. Perché è lontana da quella reale che, a occhio ma non tanto, si attesta almeno al doppio, essendoci i respingimenti e le mancate richieste, pur a fronte di assoluzioni piene. Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti, in seguito riconosciuti estranei ai delitti contestati, nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 2.500. Ecco che i 28 mila si trasformano in 60 mila, 70 mila. È tollerabile una simile ecatombe in una democrazia, in uno Stato di diritto? No. Eppure, nonostante Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, per il quale “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”, mai compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto, un vago rimprovero, un distinguo, e la dice lunga che la Consulta abbia bocciato il referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati. E chi incorre nell’obbrobrio sistematico di incarcerare innocenti a bizzeffe fischietta indifferente, tanto la coscienza è un optional, tanto gli applausi dell’ignavia e della morbosità scrosciano ugualmente, tanto le stellette guadagnate su meriti fasulli non verranno restituite.Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai – e questo è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema? Beh, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, o se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano molte delle grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora la dea bendata, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra, quella benda se l’è tolta per poter strizzare complice l’occhio, allora si è in presenza di un crollo, o di una devianza voluta, della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani, allora si è di fronte a una giustizia arruffona, frettolosa, sommaria, cinica, allora ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime legalizzato che puzza di Stato di polizia, allora occorre riflettere sulle perplessità di Sabino Cassese, grande giurista e accademico, già ministro del governo Ciampi e giudice della Corte Costituzionale – “se ci sono tanti innocenti (riconosciuti tali nei processi, ndr) questo è veramente l’esercizio di un potere autoritario e arbitrario”; “noi vogliamo che i procuratori siano magistrati; se si comportano da Robin Hood, non sono più magistrati” – allora tornano di cruda attualità le parole di Gaetano Salvemini: “se ti accusano d’aver stuprato la statua della Madonnina appollaiata sul Duomo di Milano, intanto devi riparare all’estero, poi si vede”. E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo.