Ventotto anni fa, stroncato da un tumore che forse ci sarebbe stato ugualmente, ma che certamente è esploso per via del calvario patito, Enzo Tortora ci lasciava.Tortora lo incrocio a Bologna, quando ancora pasticcio di giornalismo, e divido il mio tempo tra esami di legge e in quello che ancora oggi credo sia chiamato angòl di cretén o cantàn d’inbezéll a raccogliere firme per referendum radicali che i bolognesi sottoscrivono a migliaia, in barba al Pci di allora che li boicotta. Tra i giornali, allora come ora, Il Resto del Carlino e per un po’ Il Foglio, che non è quello di Giuliano Ferrara, ma lo sfortunato tentativo editoriale di Luigi Pedrazzi ed Ermanno Gorrieri, per rompere appunto il monopolio del Carlino; e contemporaneamente nasce Il Nuovo Quotidiano, anch’esso effimero; e diretto appunto da Tortora. Un periodo di schermaglie e polemiche, perché Il Nuovo Quotidiano è addirittura più conservatore del Carlino.Poi altre storie ed esperienze, fino al giorno dell’arresto, con quelle accuse infamanti: affiliazione alla camorra, spaccio di cocaina.Di quell’“affaire” mi sono occupato fin dal primo momento; e fin dal primo momento, senza dubbi ed esitazioni, innocentista, con pochissimi altri: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini… “Affaire Tortora”, ma non solo: che in realtà si tratta di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che sono finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo; ma no: si è voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi per il Tg2, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del Pubblico Ministero che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza? ». E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? N-E-S-S-U-N-O. E per capirci: nessuno significa nessuno.Che fosse qualcosa di simile allo scespiriano regno di Danimarca lo si capisce fin dalle prime ore: lo arrestano nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate.  E veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il Tg2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo, sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato.  Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino. Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno.C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un sì o con un no alle mie domande. Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro? «No». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, con che prove? «Nessuna». Chi lo ha scritto è stato poi condannato? Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No».  A legare il riscatto raccolto per Cirillo, i costruttori, compensati poi con gli appalti, e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.  È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Anni dopo il pubblico ministero accusatore di Tortora dice di aver agito in buona fede e chiede scusa. Diamo pure credito alla “buona fede”, anche se subito viene in mente quella terrificante figura di magistrato magistralmente descritta da Leonardo Sciascia in Una storia semplice; forse, quel pubblico ministero è ferrato in italiano come il magistrato di Sciascia. La questione, comunque, va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.Sta a noi fare in modo che non lo sia.