Penna raffinata e femminista di lungo corso, Elisabetta Rasy ha all’attivo un ricco catalogo di libri e di battaglie per la libertà femminile. «Ho cominciato a scrivere di donne quando non era ancora di moda», spiega al Dubbio. Cioè quando scavare nelle pieghe del passato per riportare alla luce le figure dimenticate della storia era ancora «un lavoro inedito». Ciò che ne emerge è una sorta di «archeologia del femminile», per definizione di Rasy, un accurato lavoro di ricerca che attraversa la sua intera opera: un patrimonio prezioso per le donne di ieri e di oggi. «La nostra era una generazione che aveva grandi ideali – dice - perché c’erano dei muraglioni da abbattere. Ma c’è ancora tanto da fare: è impossibile smettere di lottare per la nostra libertà».

Partiamo dal suo penultimo libro: “Le indiscrete. Storie di cinque donne che hanno cambiato l’immagine del mondo” (Mondadori). Un viaggio nella vita di celebri fotografe del Novecento – Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus, Francesca Woodman - che fa il paio con un altro suo lavoro, “Le disobbedienti”, nel quale invece racconta sei pittrici.

Si tratta di cinque donne molto innovative non solo per la storia della fotografia, ma proprio per la storia dell’immagine. Sono tutte animate da una costante ricerca della libertà. Tina Modotti ha scardinato il canone stabilito. Diane Arbus, che veniva da una famiglia di ricchi commercianti, ha rifiutato il modello di madre e moglie borghese che le era imposto. Lee Miller era l’immagine stessa della libertà: da modella bellissima e ammirata, è stata tra le prime ad entrare nei campi di concentramento liberati, scattando delle foto durissime.

Tutte donne dalle «biografie controverse». Come le ha scelte?

Senza trascurare le opere, ho trovato interessanti delle vite che non seguivano il tradizionale canone femminile. Ho trovato una corrispondenza tra la capacità di esprimere immagini nuove, in pittura o in fotografia, e la capacità di vivere una vita piuttosto autodefinita. Cioè autodiretta e non eterodiretta. Credo che sia così: dietro delle opere piuttosto rivoluzionarie ci sono sempre vite di donne che avevano deciso di scolpire autonomamente la propria esistenza.

«Tutte coltivano un’arte dell’indiscrezione, che è l’esatto contrario dell’indifferenza». Cosa intende dire?

L’indifferenza è guardare le cose in maniera assente. È accettare un po’ a occhi chiusi e orecchie chiuse quello che ci viene detto. Sembra un paradosso, ma l’indiscrezione, invece, è la capacità di andare a vedere cosa c’è sotto, una forma molto accesa di attenzione che non si accontenta delle apparenze.

Nel suo ultimo libro, “Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza”, fresco di stampa per HarperCollins, racconta invece la storia di una ebrea olandese vittima dello sterminio nazista. Un doppio romanzo di formazione, della protagonista ma anche Sua.

L’incontro con gli scritti di Etty è stata una folgorazione, giunta alla fine della mia giovinezza. Leggendola ho capito delle cose di me che non avevo capito. A questo dovrebbero sempre servire i libri, che non sono dei monumenti nei quali andiamo in visita. Se entrano nella carne viva della nostra storia non ce li dimentichiamo più. È ciò che è successo con Etty, anche se lei ha una storia molto tragica che io non ho avuto. Nasce nel 1914 e negli anni ‘30 è una giovane donna che va via da casa per costruirsi un’indipendenza attraverso lo studio e attraverso la professione di scrittrice. Nel suo diario racconta di non essere sicura di sé, è piena di dubbi e malesseri. Ma allo stesso tempo è piena di coraggio. Sullo sfondo c’è una tragedia storica, di cui Etty è assolutamente consapevole. Ma nei suoi scritti c’è anche la storia di una ragazza che vuole essere se stessa e vuole avere rapporti di tipo nuovo con l’amore, con la famiglia, e anche con Dio.

Etty diventa una figura simbolica, che testimonia la capacità di non soccombere al Male.

Nel suo diario c’è questa frase: “Non bisogna dire che Dio deve aiutare gli uomini, sono gli uomini che devono aiutare Dio. E Dio ci vuole felici”. Da qui il titolo del mio libro: una frase che sembra paradossale, che ci vuole richiamare alla responsabilità umana. L’orrore nazista non è una cosa che ha voluto Dio, ma gli uomini. E non dobbiamo dimenticarlo.

Sembra che ognuna delle protagoniste dei suoi libri sia stata per lei un’amica intima, di cui conosce gioie e dolori. Come ci riesce?

È vero anche il contrario: queste donne sono state le mie migliori amiche per il tempo che mi sono occupata di loro. Ho una grande passione per i documenti e le testimonianze, e ogni volta che mi sono occupata di queste figure è stato un po’ come ricostruire un album di famiglia. Come se si trattasse di lontani parenti sulle cui tracce andavo.

Il suo album si compone di grandi battaglie per la libertà donne. Negli anni 70 è stata protagonista della lotta per l’emancipazione femminile. Cosa resta oggi, a suo parere, per cui lottare?

Non bisogna pensare che tutto sia risolto. Anche se ci sono dei diritti acclarati, non tutte ne godono. C’è un grande chiaroscuro: non tutte le donne, ad esempio, hanno diritto al lavoro e alla sanità. Poi c’è una parte di mondo in cui questi diritti non sono acclarati, e la cosa ci riguarda.

Da Giorgia Meloni a Elly Schlein; dall’ex ministra Marta Cartabia a Margherita Cassano, appena nominata al vertice della Cassazione, fino alla presidente del Cnf Maria Masi, prima donna al vertice dell’istituzione forense. Il cosiddetto soffitto di cristallo si è infranto?

È una situazione contraddittoria: se ci sono donne che hanno infranto il tetto di cristallo, ce ne sono altre che non hanno infranto neanche il tetto di casa e sono soggette a una dittatura domestica. Per questo è impossibile smettere di lottare per la libertà femminile.

Cosa rappresenta per lei la ricorrenza dell’8 marzo?

L’8 marzo dovrebbero celebrarlo proprio le donne che non possono farlo. O perché oberate dal lavoro, o perché sono oppresse. In Italia c’è una povertà di ritorno molto forte, e le prime a pagarne lo scotto sono proprio le donne, che spesso devono conciliare famiglia e lavoro per far quadrare il bilancio. Ecco, bisognerebbe fare l’8 marzo per le donne dimenticate.