Quando all’inizio degli anni 70 il “Beccaria” apriva i battenti don Gino Rigoldi era lì, come oggi a distanza di oltre 50 anni. «Sono ancora io il cappellano, pur avendo dato le dimissioni. Al “Beccaria” tutto è lento, don Claudio Burgio che mi sostituirà non ha fretta, perché ha tante cose da fare, la direzione è sommersa dalla burocrazia e io sono ancora vicino ai miei ragazzi», dice don Gino con i suoi 84 anni e la voglia e l’entusiasmo di un giovanotto. In tutti questi anni ne ha visti passare tanti di ragazzi, sa bene di cosa hanno bisogno e con la sua Fondazione tra i quartieri di San Siro e Giambellino ha 15 appartamenti per chi una casa non ce l’ha.

Don Gino, per contrastare la criminalità minorile il governo ha deciso di intervenire con il decreto Caivano che, secondo il rapporto di Antigone, ha fatto aumentare i detenuti negli Ipm. Pensa che possa servire?

È una stupidaggine, frutto di incompetenze secolari, pensare che i cattivi comportamenti dei minori si possano contrastare inasprendo le pene. In assenza, o meglio con grandi deficit, di proposte culturali e formative. Si tratta di misure che possono avere effetto su qualche animo surriscaldato e ignorante della realtà che applaudirà, ma passato il clamore mediatico i problemi rimarranno insoluti.

La stessa stupidaggine l’ho sentita in questi giorni, dopo la morte degli operai nel cantiere di Firenze, quando si è detto: inaspriremo le pene. Forse sarebbe stato più corretto dire aumenteremo i controlli e la formazione. Per quei minori che sono in giro per la città senza casa e senza lavoro qualcuno può pensare che la soluzione sia quella di punirli di più? Ripeto, è una grande stupidaggine. L’unico risultato sarà quello di far aumentare i ragazzi che entrano in carcere.

Chi sono i minori che vanno in carcere?

La gran parte ci vanno per dei piccoli reati legati alla sopravvivenza. Milano è il punto di arrivo di molti ragazzi immigrati. Abbiamo almeno 700/800 minori in giro per le strade in cerca di un letto e di un pasto caldo. Addirittura i minori trovano accoglienza alla “casa Jannacci” e alla “Certosa”, due grandi istituti destinati.

Quale?

Agli anziani.

Una vera emergenza?

Siamo impegnati quotidianamente a risolvere le situazioni di emergenza e non faccio altro che chiedere la “grazia”, a qualcuno per garantire al ragazzino in uscita una condizione di vita accettabile. Qualche giorno fa ho fatto un “miracolo”: nessuno poteva prendere in carica un ragazzo con dei problemi psichiatrici, dal momento che le comunità sono sature, finalmente dopo lunghe insistenze gli abbiamo trovato una collocazione.

Lei di “miracoli” ne ha fatti tanti nella sua vita.

Ci sono stati una serie di eventi positivi. Tenga presente che i ragazzi hanno delle risorse straordinarie. Immagini la storia drammatica di un ragazzo, che sta per diventare mio “figlio”, il quale ha camminato a piedi per 1.100 chilometri, lungo la rotta balcanica, oppure di un altro che ha attraversato il Mediterraneo su un gommone, o aggrappato a un camion per chilometri. Questi ragazzi hanno affrontato delle difficoltà che noi non immaginiamo neanche, avendo delle grandi energie che bisognerebbe riuscire a intercettare. Non è semplice. Se sono piccoli e vanno a scuola e se c’è un’accoglienza minimamente attrezzata ci si può riuscire, in questo caso parliamo di figli immigrati che vivono in periferia anche se in condizioni non certo facili. Per gli altri che arrivano, purtroppo, non siamo attrezzati, perché la prima necessità è dare loro da mangiare e dormire, tenendo presente che hanno una cultura e una prospettiva di vita diversa dalla nostra. Per chiare meglio il mio pensiero ai mie collaboratori ripeto: “tenete presente che questi ragazzi non sono nati a Pavia”. A quelli che hanno più di 14 anni bisogna offrire una formazione per farli diventare pizzaioli, muratori, falegnami.

È quello che state facendo al centro Barrio’s nella periferia della Barona?

Esattamente. L’importante è far capire ai ragazzi che quella formazione gli servirà subito dopo per garantirsi un futuro. Ovviamente bisognerà insegnare loro l’italiano e fornirgli i documenti. Con questo approccio si entra in sintonia con loro, perché parliamo un linguaggio comprensibile: quello della vita pratica.

Il “Beccaria” è stato per molto tempo un istituto modello. Poi?

Lo è stato per i primi 25 anni, poi il direttore è andato in pensione, è arrivata una bravissima direttrice da San Vittore la quale, purtroppo, dopo un paio di anni ha dovuto lasciare per una malattia. Da quel momento in poi c’è stata una lunga sequela di facenti funzione, per fortuna finita sei mesi fa.

E oggi com’è la situazione?

Ci sono tra i 70 e gli 80 ragazzi, anche perché rispetto a prima ci sono più posti disponibili. Per loro c’è bisogno anche di mediatori culturali, perché sono quasi tutti extracomunitari. Siccome si tratta di minori hanno bisogno dei documenti, di imparare l’italiano e poi ho una idea che spero di poter realizzare. In casa mia vivono 14 ragazzi che quando incominciano a pregare ritrovano le loro radici e ho notato un certo cambiamento. Quindi la mia idea è quella di farli incontrare con un rappresentante della loro religione, un iman, perché ci credano o meno sicuramente gli può fare bene. Il cappellano cattolico al “Beccaria” in pratica è quasi disoccupato: se dice messa non c’è quasi nessuno, i detenuti.

Ha adottato 5 ragazzi, ne ospita 14, ma considera suoi figli tutti quelli che incontra ogni giorno.

Ci tento. Sì per due è in corso l’adozione, purtroppo uno è morto in un incidente stradale. Con qualcuno ogni tanto ci sono delle tensioni, ma questo avviene in tutte le famiglie.

Il carcere per definizione dovrebbe essere l’estrema ratio per gli adulti, a maggior ragione per i minori.

Sì, ma il paradosso è che noi al “Beccaria” siamo quasi arrivati a dire, tra molti dubbi ovviamente: se arriva qui poi qualcuno ci penserà. È sicuramente sbagliato, ma riuscendo a organizzare dei percorsi formativi è da preferire alla strada.

Il grande successo della serie televisiva “Marefuori” può contribuire ad aumentare la sensibilizzazione nei confronti del mondo carcerario minorile?

Parliamo di fiction, purtroppo la realtà degli Ipm è molto più dura. Non credo che il carcere può essere immaginato dai giovani come una cosa bella. Ho notato in questi anni che in certi quartieri milanesi chi è stato al “Beccaria” viene considerato o si sente come se avesse i “gradi”.

Cosa manca al Beccaria e agli altri Ipm per fare un salto di qualità?

Ci sono una serie di educatori nuovi che stanno imparando sul campo e al momento fanno fatica. Stiamo facendo con loro un percorso per farli diventare un gruppo di lavoro, perché l’interazione è fondamentale. Il grosso limite è che tutto avviene all’interno dell’istituto. Ci vorrebbero tanti “articolo 21” per consentire ai ragazzi di uscire per andare a lavorare. Sarebbe un messaggio fortissimo per gli altri che sono dentro: fuori c’è il lavoro e il futuro.

Una situazione comune a tutte le carceri italiane.

Purtroppo è così. A Opera, per i detenuti che hanno superato il tetto della pena, stiamo facendo questo esperimento: portare le aziende all’interno per formare i lavoratori. Una volta pronti escono, grazie all’articolo 21, vengono assunti regolarmente e rientrano la sera. Tutto in accordo con Cgil, Cisl, Uil, con il sostegno di una banca e con le aziende. E la cosa funziona e contribuisce a ridurre la recidiva. Negli Ipm si potrebbe fare la stessa cosa inserendo la scuola e le imprese. Ed è quello che chiedono i ragazzi.

Il mondo libero come percepisce il carcere?

C’è diffidenza, è sempre uno stigma. Accoglienza sì, ma con prudenza.

Il sogno di don Gino?

A parte quello di sistemare alcuni ragazzi ho il sogno che il “Beccaria” abbia un gruppo di educatori in grado di lavorare insieme per accompagnare i ragazzi e che sia un luogo dove si stia il meno possibile con la prospettiva di opportunità di lavoro e di un posto dove dormire.

Come descriverebbe il disagio giovanile?

Quella dei ragazzi italiani è una generazione molto confusa e abbandonata dal mondo adulto. Pensi che viene considerata una domanda indiscreta quando si chiede alla scuola, alla famiglia e alla parrocchia quale è il progetto educativo. I ragazzi immigrati non hanno radici né punti di riferimento e quindi si ritrovano in balia di una situazione turbinosa, hanno tanta energia ma bisogna intercettarla. Per me educazione significa relazione, camminare insieme, fare comunità. Non dovranno diventare come noi, ma integrarsi con noi.