Tentato già nel 2008 di votare Pd per premiare il coraggio di Walter Veltroni, che ne era il segretario, di avere rifiutato la vecchia logica del suo partito di provenienza di non poter avere nemici a sinistra, dovetti rinunciarvi quasi all’ultimo momento. Accadde quando Veltroni accettò di derogare alla sua cosiddetta vocazione maggioritaria apparentandosi elettoralmente con Antonio Di Pietro. Il cui approdo alla politica dagli spalti del giustizialismo non mi era mai piaciuto, così come il tradimento dell’impegno da lui assunto, lasciando improvvisamente la magistratura e cominciando una collaborazione con La Stampa, di non investire in politica il credito e la popolarità guadagnati come sostituto procuratore della Repubblica a Milano con le in- dagini chiamate Mani pulite. La mia diffidenza politica risultò confermata dalla decisione poi presa da Veltroni, dopo le elezioni, di esonerare Di Pietro dall’obbligo contrattuale di partecipare con i suoi ai gruppi parlamentari del Pd, dove si poteva pensare che avrebbe dovuto moderare le sue vecchie pulsioni giustizialiste.

Veltroni non solo autorizzò Di Pietro a rimettersi, diciamo così, in proprio nelle nuove Camere con tanto di gruppi parlamentari autonomi, ma se ne fece poi condizionare nella linea politica. Così la sedicesima legislatura si trasformò in un’altra occasione perduta per la sinistra, ridotta al solito antiberlusconismo preconcetto e totalizzante.

Vi lascio pertanto immaginare quanto mi fossero cadute le braccia nelle scorse settimane, quando vidi comparire sui giornali voci e notizie sulla disponibilità di Matteo Renzi a candidare Di Pietro col Pd. E addirittura sulla risposta ch’egli avrebbe dato ad amici contrari o scettici: “Meglio un giustizialista che un pregiudicato”. Una risposta degna più della cultura, delle abitudini e quant’altro di un Marco Travaglio che di un segretario di partito più volte propostosi, anche come presidente del Consiglio, di restituire alla politica la primazia perduta nei rapporti con la magistratura.

Provai perciò un certo sollievo quando vidi escluso Di Pietro dalle liste del Pd, a prescindere dal giudizio che si poteva e si può dare tuttora delle procedure adottate da Renzi. Che comunque è passato alla fine per una riunione della direzione di cui non ho trovato traccia nelle cronache sugli altri partiti.

Ebbene, al sollievo è subentrato qualche giorno fa un dubbio, quando ho letto un’intervista dell’ex magistrato al Corriere della Sera.

Nella quale egli ha raccontato di una lunga e nutrita corte ricevuta da emissari di Renzi, fra i quali Piero Fassino, naufragata quando lui, interpellato sul tema, annunciò che mai da parlamentare del Pd avrebbe votato a favore di un’intesa più o meno larga con Berlusconi, neppure dopo un risultato elettorale neutro.

C’era da credergli. Portato nel 1997 a Palazzo Madama dall’allora segretario del Pds- ex Pci Massimo D’Alema, che lo aveva candidato nel collegio blindatissimo del Mugello, inutilmente osteggiato a destra da Giuliano Ferrara e a sinistra da Sandro Curzi, il senatore Di Pietro si rifiutò nel 2000 di votare la fiducia al secondo governo di Giuliano Amato. Che D’Alema aveva voluto suo successore a Palazzo Chigi, dopo le dimissioni presentate per l’insuccesso nelle elezioni regionali. «Amato no, quello non lo voto», gridò Di Pietro, che non gli perdonava di essere stato l’uomo di fiducia di Bettino Craxi.

Ora, tornando ai giorni nostri, non mi piace il sospetto, inculcatomi da quell’intervista al Corriere, che Di Pietro sia rimasto fuori dalle liste del Pd non perché giustizialista ma solo perché contrario a più o meno larghe intese di governo con Berlusconi, neppure se queste fossero imposte dalle superiori esigenze di governabilità del Paese. Avrei preferito, e preferirei con qualche opportuno chiarimento, essere invogliato a votare Renzi apprezzandone un genuino, davvero incondizionato garantismo, a prescindere dalle convenienze politiche.