L’altro giorno, in un’intervista alla “Stampa”, Stefano Rodotà ha messo in discussione l’idea che un referendum sia comunque e sempre un grande momento di espressione della democrazia diretta. Ha detto che può essere un boomerang. Posizione per certi versi stupefacente, vista anche la vicinanza, recente, tra Rodotà - che è uno dei massimi giuristi italiani – e il Movimento Cinque Stelle, che lo candidò qualche anno fa alla Presidenza della Repubblica.Qual è l’argomento di Rodotà? Duplice. Innanzitutto, lui dice, un referendum ha bisogno di una mole straordinaria di informazione, che permetta agli elettori di scegliere “sapendo”. Altrimenti da un risultato bugiardo. E poi un referendum, per essere davvero un referendum, deve essere “puro”. E cioè deve innescare una battaglia referendaria costruita interamente sul merito della domanda che il referendum pone, senza implicazioni politiche e senza strumentalizzazioni di parte. Per queste ragioni – sostiene Rodotà – il referendum britannico è stato una rovina, un “boomerang democratico”, e sarebbe stato molto meglio non farlo. E per queste ragioni il premier Renzi sbaglia a trasformare il referendum costituzionale di ottobre in una ordalia che ha come posta la vita o la morte del premier più che la vita o la morte del Senato.Ha ragione Rodotà?Credo che sia giusto avanzare diverse obiezioni. Alcune delle quali riguardano i fatti e altre i principi.Sui fatti c’è da dire che il referendum britannico ha spaccato a metà l’opinione pubblica proprio sul merito della domanda alla quale si doveva rispondere: «volete o no restare in Europa? ». Domanda chiarissima. Il problema non era se mandare o no a casa Cameron. La caduta di Cameron è stata una conseguenza del risultato ma non era una eventualità che aveva dominato la campagna elettorale. Raramente è stata più netta e limpida la divisione dell’elettorato. Non è detto che tutti avessero valutato esattamente le conseguenze del voto, ma tutti sapevano perfettamente cosa votavano, e un po’ più della metà degli elettori era contraria a restare in Europa, voleva chiudere le frontiere e in questo modo contrastare l’immigrazione. E ha vinto.L’obiezione di principio riguarda invece la valutazione di una “procedura democratica” sulla base dei risultati che si realizzano. E’ un modo molto diffuso di ragionare e che ha anche un suo fondamento in un “sistema dei fini”. Ma la democrazia è un sistema di “fini” o di “mezzi”? Ed è possibile o no - in democrazia - giudicare il “mezzo” come semplice strumento di un “fine”?La domanda è molto seria specialmente in un momento di grandi cambiamenti come è quello che stiamo attraversando. E in una fase nella quale non solo è in crisi il rapporto tra democrazia diretta e democrazia delegata (democrazia politica) ma probabilmente è in crisi l’idea stessa di democrazia.Noi viviamo un epoca nella quale una forte spinta dal basso, che ha un carattere populista (senza dare nessuna accezione necessariamente negativa a questa parola) e anti-sistema, chiede un rafforzamento della democrazia diretta a scapito della democrazia delegata, perché vede nella democrazia diretta uno strumento controllato direttamente dal popolo e nella democrazia delegata uno strumento delle “élite” o addirittura della “casta”. Le “élite”, o la “casta” (oppure, usando termini forse più appropriati: le classi dirigenti) rispondono a questa spinta non rafforzando la democrazia politica, ma sostituendola con la tecnocrazia. Tutto il processo di stabilizzazione dell’Unione Europea è andato in questa direzione. E nell’oscillazione tra tecnocrazia e democrazia diretta è stata bypassata completamente la democrazia politica, che, probabilmente, è l’unica vera garanzia di democrazia reale (e l’unico sistema dentro il quale, e non in assenza del quale, possono sopravvivere, legittimarsi e avere un peso sia la democrazia diretta sia il ruolo delle tecnocrazia).Non è forse questo, allora, il problema che pone Rodotà, e che però non esplicita? Sostenere che un referendum non ha valore se non c’è stata una quantità sufficiente di informazione non vuol dire niente. Oppure vuol dire, semplicemente, che un referendum ha valore solo se lo vincono “ i giusti”. Ma questa non è una posizione razionale. Probabilmente invece il problema è che un referendum non ha valore democratico se invece di essere un sostegno alla democrazia politica è una leva per scardinare la democrazia politica.Esattamente questo è il caso inglese. Una decisione come quella se restare in Europa o uscire è una tipica decisione che spetta alla democrazia politica e alla sua struttura, fatta di elezioni di primo e di secondo grado, di partiti, di istituzioni. Affidarla invece a un referendum vuol dire non solo rischiare un grave errore storico, ma anche mettere in mora, in modo assai rischioso, le garanzie della democrazia politica.Perché questo succede? E perché la spinta populista che sta alla base di queste decisioni (e alla quale ha ceduto anche Cameron) sta diventando la “padrona” non solo dei partiti ma persino dei ceti intellettuali?Probabilmente la causa principale sta nella crisi, e quasi nella scomparsa, della sinistra tradizionale. Che aveva svolto per decenni, in Europa, il ruolo di cerniera tra Stato e Popolo. Questo vuoto ha fatto saltare tutti i meccanismi di difesa dei principi elementari e di base della democrazia. Ha permesso che la stessa democrazia - come terreno comune e da tutti riconosciuto - potesse essere messa in discussione, da destra e da sinistra, e diventasse una “categoria” relativa, che si adatta alle battaglie politiche e non ne è più il fondamento immutabile e la regola.Questa relativizzazione della democrazia ha coinvolto tutti, non solo i partiti, ma anche l’intellighenzia. E’ un segno di modernità, di dinamicità? O forse è un ridimensionamento della civiltà politica?