La parola d’ordine è “accessibilità”. Con un’accezione nuova in tema di riforma della giustizia: garantire i diritti di tutti significa prima di tutto conoscere e prevenire i bisogni della società all’indomani dell’emergenza pandemica. Per Daniela Piana, docente di scienze politiche all’Università di Bologna e membro di un gruppo di esperti dell’Unesco per la promozione della legalità nel mondo, in un sistema sostenibile ogni cittadino «si sente portatore di diritti, e conosce il costo di vita che l’ingresso in giurisdizione comporta».

In qualità di delegato italiano al tavolo di ricerca internazionale sulla giustizia costituito dall’Ocse, Piana ha partecipato alla stesura di un rapporto che analizza l’impatto del Covid- 19 sulle fasce più vulnerabili della società in termini di accesso ai servizi in un contesto emergenziale.

Professoressa Piana, come nasce questo studio e quali risultati ha prodotto?

Come organizzazione internazionale di studi economici propedeutici alle politiche di sviluppo, l’Ocse ha ripensato la giustizia come parte essenziale della public governance.

Questo lavoro nasce nel contesto dell’emergenza pandemica ma utilizza metodologie di ricerca già sperimentate: attraverso uno strumento di survey abbiamo rilevato il divario che esiste per ciascun segmento della società tra bisogni e garanzie effettive. Ponendo una domanda fondamentale: la pandemia ha aumentato le barriere di accesso alla giurisdizione? O le ha spostate rendendole significative per nuove fasce sociali?

E qual è la risposta?

L’emergenza sanitaria ha divaricato le diseguaglianze sociali, con un’aggravante per il mondo della giustizia. Tutti i paesi hanno reagito attraverso la remotizzazione, quindi mettendo in tensione - in via di eccezionalità - le garanzie in presenza della dialettica giurisprudenziale. Ma questo non deve compromettere la normalità dello Stato di Diritto. Avremo nuovi soggetti vulnerabili che è importante conoscere per dotarsi di strumenti adeguati.

In base alla sua esperienza, quali fasce sociali soffriranno di più nella fase post Covid?

Attraverso i metodi di prognostica socio- economica, possiamo prevedere l’impatto su due mondi in particolare: quello delle imprese, nel campo del diritto economico e fallimentare, e quello prettamente sociale che riguarda le famiglie a basso reddito o con problemi endemici di conflittualità, acutizzate dal lockdown.

Per l’uno di tratta di garantire una risposta giuridica prevedibile che assicuri la ripresa, per l’altro le difficoltà riguarderanno principalmente i costi e l’accesso alle informazioni.

In termini di accessibilità, anche il ricorso alla digitalizzazione ha prodotto significative differenze.

La tecnologia andrebbe interamente ripensata. Ora che abbiamo sperimentato “l’assoluto digitale”, sappiamo che non è mai uno strumento neutro: ha un impatto redistributivo sulle capacità, sulle competenze, e sull’effettività dei diritti. Inoltre, bisogna prendere in considerazione che non tutte le interazioni sociali e organizzative funzionano bene calate in un contesto digitale.

Nel caso della giustizia, dopo averne sperimentato la parziale paralisi, l’auspicio dell’avvocatura è di avviare una modernizzazione intervenendo soprattutto sulle regole organizzative.

Bisogna riformare la giustizia con un approccio realmente sistemico, intervenendo sulle modalità con la quale sono organizzate le diverse professionalità lungo tutta la filiera. Prendere sul serio il concetto di crisi significa prenderlo nel suo senso etimologico di “scelta”: in un momento di forte discontinuità, ogni decisione ha grande impatto. Sarebbe irresponsabile non sfruttare questa occasione per un rinnovamento secondo i dettami dell’agenda 2030 dell’Onu: se le istituzioni funzionano bene, la società diventa più equa, più sostenibile. In quest’ottica, è importante che l’avvocatura si muova con una voce plurale, ma istituzionalmente compatta.

Lei ha una visione di tipo comparato sul rendimento istituzionale dei diversi paesi, a che punto è l’Italia rispetto allo standard europeo?

Noi abbiamo un punto forte e uno debole che riguardano il modo di relazionarci con il cambiamento. Siamo molto capaci di trovare soluzioni originali e abbiamo un potenziale di adattamento altissimo, come abbiamo dimostrato durante l’emergenza. Quello in cui siamo problematici, è la capacità di dare seguito alle regole. Investiamo molto sulla costruzione della nuova norma, ma abbiamo una cultura debolissima del monitoraggio e dell’implementazione delle politiche. Questo, però, non è più il momento della risposta emergenziale, bensì della costruzione progettuale.