«Nonostante il ricorso a quasi 5.000 braccialetti elettronici, le statistiche dei reati in materia di violenza domestica e di genere ci dicono che qualcosa non ha funzionato», afferma Alberto Liguori, procuratore della Repubblica di Civitavecchia e fra i maggiori esperti nel contrasto a queste condotte criminali particolarmente intollerabili.

Procuratore Liguori, questa settimana si è verificato un nuovo caso di femminicidio. Può spiegarci quali sono attualmente gli strumenti a disposizione degli inquirenti?

Il legislatore, nel tempo, ha reagito rafforzando gli strumenti di contrasto alla violenza contro le donne con l’adozione di misure di tutela della vittima per sterilizzare al massimo le occasioni di contatto tra la vittima e l’indagato. La strategia ha un comune denominatore: la tempestività dell’intervento giudiziario sia attraverso l’esame della vittima nei tre giorni successivi all’iscrizione della notizia di reato sia con la successiva valutazione del quadro cautelare nei trenta giorni dalla medesima iscrizione, con opzione, nei casi più gravi, di misure cautelari personali o coercitive sulla base delle informazioni richieste all’organo di polizia giudiziaria procedente.

Se però questo genere di reati, pur a fronte delle previste segnalazioni, non calano, è evidente che qualcosa, senza voler accusare la polizia giudiziaria o i pm, non torna.

Bisogna essere chiari. L’applicazione delle misure cautelari più frequenti, quali l’allontanamento dalla casa familiare o e il divieto di avvicinamento in luoghi frequentati dalla persona offesa dell’autore del reato con l’aggiunta del braccialetto elettronico, non impediscono al violento di uccidere allontanandolo a 500 metri di distanza.

E allora cosa servirebbe?

Servirebbe, invece, che allorquando il giudice si determina per l’applicazione di una misura cautelare personale o coercitiva per il reo, nella parte dedicata alle prescrizioni, accanto all’implementazione del braccialetto elettronico, preveda anche la frequentazione di un programma di prevenzione della violenza presso uno dei Centri regionali di ascolto uomini maltrattanti e che, come accade per il braccialetto elettronico, in caso di rifiuto di sottoposizione deve scattare automaticamente l’applicazione di una misura più grave.

Come si potrebbe attuare?

Basterebbe intervenire sull’attuale assetto normativo delle misure coercitive più diffuse dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis cpp) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter cpp).

Tocca al Parlamento intervenire?

Per la verità, il nostro legislatore, anche perché sollecitato da organismi sovranazionali, se da una parte ha previsto percorsi di trattamento per gli autori di reato dall’altra li ha inseriti in una fase avanzata delle indagini preliminari e in un’ottica premiante e non di prevenzione vera e propria. Infatti, la sottoposizione ad un programma di prevenzione della violenza dell’autore è facoltativa, essendo a questi rimessa la scelta di beneficiare di regimi cautelari meno afflittivi (art. 299, comma 2 bis cpp), se non per ottenere la sospensione condizionale della pena (art. 165, comma 5, cp).

Lei parla di approccio “culturale”?

Già. Tenendo conto che è in gioco la libertà di autodeterminazione della donna, è una scelta di campo innanzitutto culturale che precede quella normativa. Gli interventi premianti e convenienti per il reo – sottoponiti ad un programma di prevenzione della violenza presso i Centri per uomini autori di violenza (Cuav) e ti scarcero o non ti faccio entrare in carcere - devono essere affiancati da strumenti di autentica prevenzione convenienti per tutti, reo, vittima e intera collettività, con la presa in carico dell’autore di violenza da parte dei Cuav entro il perimetro temporale assegnato al pubblico ministero dei 30 giorni dall’iscrizione della notizia di reato per decidere sulla libertà del reo.

E poi?

Portando a regime l’attuale sistema processuale potremmo incidere in maniera efficace mettendo in sicurezza la vittima e il reo, al quale comunque deve essere garantito anche il diritto alle cure, alzando l’asticella e anticipando alla fase che precede l’adozione della misura cautelare il momento della diagnosi e della terapia. La visione di coniugare “sicurezza, libertà e salute” è ambiziosa e necessaria. Mettere in sicurezza la vittima è prioritario, ma parallelamente, lavorare sulla “salute” dell’autore (intesa come superamento del disagio psicologico e delle dinamiche violente) non solo previene la recidiva, ma contribuisce anche a un obiettivo di giustizia più ampio, che include la rieducazione e il reinserimento. Il diritto alle cure per l’autore del reato, in questo contesto, assume il duplice significato di diritto individuale e di strumento di prevenzione sociale.

Secondo lei sarebbe la soluzione più appropriata?

Serve questo tipo di intervento mirato sull’autore del reato per ricostruire il contesto di appartenenza e agire in termini preventivi perché la violenza, ricordiamolo, è il risultato di un’interazione complessa di fattori biologici, psicologici, familiari e sociali.