Il Maxiprocesso di Palermo fu il Maxierrore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l'errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l'ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l'arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta. «?per la prima volta si voleva processare la Mafia», con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l'appunto.Va ricordato, solo a parziale comprensione dell'iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente.Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone.È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l'allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "?i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa.Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d'appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell'esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica.Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxierrore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa.La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l'anzianità del collega Meli alla presidenza dell'ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull'attività della prima sezione di Cassazione, da cui l'alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica sull'"ammazzasentenze" per sottrarre il maxiprocesso alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente.E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d'appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l'Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l'ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti- Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti.