«Perché una donna dovrebbe essere libera di abortire, di sposarsi o divorziare, e non di scegliere la gestazione per altri?». Quella di Chiara Lalli non è una provocazione, ma il tentativo di smontare la premessa che prelude a un ragionamento viziato, contraddittorio. Una vera e propria «credenza», un giudizio universale: l’idea che le donne non abbiano mai la capacità, né il potere, di decidere per sé, anche in condizioni non ideali. Filosofa, bioeticista, saggista, e autrice tra gli altri del libro “Libertà procreativa”, Lalli non intende certo negare i passi in avanti. Ma sul diritto delle donne a decidere del proprio corpo, paghiamo ancora un atteggiamento paternalista e moralista. Così quel diritto non è più lo strumento per regolare alcune questioni complesse, ma la frusta con cui - attraverso la legge - trasformiamo in reato ciò che non ci piace, o ci sembra immorale.

Prendiamola alla larga. Partiamo dal 1975, quando una sentenza della Consulta apre la strada alla depenalizzazione dell’aborto e alla legge 194 del 1978. Per definizione degli stessi giudici costituzionali, quella sentenza ci ha aperto al mondo della scelta libera, che coincide con la nostra responsabilità.

Bisogna ricordare che la 194 non è una legge ideale, né stabilisce la nostra libertà di abortire. Quello operato dalla sentenza del ‘75 è un bilanciamento con il nostro diritto alla salute. Si parte dalla considerazione che la donna è a tutti gli effetti persona, e che il nascituro persona lo diventerà. Ma ricordiamo anche che la 194 si chiama “legge per la tutela della maternità”: non definisce, in realtà, la nostra auto-determinazione. È certamente una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Quando una libertà può dirsi davvero tale? Senza che risulti mortificata dal bilanciamento con altri diritti. 

Nessuna libertà è assoluta, ma è il confronto ad essere interessante. Anche sulle libertà di scelta più difficili da limitare, in termini morali, ci sono delle giuste premesse che riguardano la capacità cognitiva di comprendere le conseguenze delle proprie decisioni. Altrimenti la libertà non sarebbe davvero tale. Nel caso dell’aborto, la questione è un po’ più profonda: il bilanciamento e lo spazio di libertà accordato non è legato alla volontà di interrompere una gravidanza. Il conflitto che si crea è tra il diritto alla salute e l’eventuale “diritto” dell’embrione. Si parla con una certa approssimazione di libertà di abortire, ma se mettiamo a fuoco questa premessa capiamo meglio certe conseguenze, certe restrizioni e certo moralismo.

Ad esempio?

Basta pensare alla legge 40 sulla procreazione assistita. O alle decisioni sul fine vita, che è uno degli argomenti più “semplici” da questo punto di vista: non c’è la considerazione di un terzo, riguarda la nostra vita, eppure moltissime volte ci tocca sentire risposte moralistiche, del tipo “ah se ti avessero curato o assistito meglio”. La pretesa è di saperla lunga, sapere qual è il nostro bene: una forma di paternalismo feroce.

Un paternalismo che riguarda più le donne, che gli uomini?

Su questo siamo abbastanza egualitari. Ma è chiaro che l’aborto, che riguarda le donne, è l’argomento su cui abbiamo più problemi. Molti paesi, anche più conservatori del nostro, sui matrimoni egualitari e sulla discriminazione che riguarda lo stato di famiglia, stanno cedendo. Ma sull’aborto c’è un fenomeno universale di inversione, come negli Stati Uniti. E non è semplicemente una questione sessista o patriarcale.

Una involuzione rispetto ai progressi fatti, dunque. Perché?

Non ho una risposta esaustiva. Sarebbe un discorso lungo e complicato. Però, intorno agli anni ‘70, in molti stati, tra cui Italia e Stati Uniti, con il processo di depenalizzazione dell’interruzione della gravidanza, c’è stato un progressivo slittamento morale. Ricordo che in Francia, prima che diventasse legale abortire, ci fu il “Manifesto delle 343 puttane”, in cui moltissime donne famose si autodenunciarono di procurato aborto. Oggi l’argomento è circondato dal silenzio. Molte persone lo considerano sempre un trauma, un dolore inconsolabile. Perché ci sentiamo in dovere di dire che l’aborto è sempre una scelta sofferta. Ma bisognerebbe semplicemente preoccuparsi di garantire la qualità e l’accesso al servizio medico.

Crede che l’aborto sia diventato di nuovo un tabù?

Lo stigma, o la “sindrome” post abortiva, non c’era nemmeno quando l’aborto era ancora illegale. Un reato concepito in Italia non per proteggere il nascituro o la donna, ma per proteggere la stirpe. Il contesto è ovviamente cambiato: ma oggi c’è un’involuzione perché la parte liberale è sempre stata sulla difensiva, e ora lo stiamo pagando. In più, i movimenti Pro life sono bravi e più aggressivi.

Lei dice.

Certo, a cominciare dal fatto che si sono appropriati della parola “vita”: diventa difficile decostruire questa immagine, e spiegare che sei a favore della scelta e non certo della morte. C’è un problema di strategia. Qual è il limite della controparte liberale? Non ne fanno una giusta, a cominciare dagli argomenti, dalla timidezza, dal discorso basato sulle fragilità. Ci si pone sempre sulla difensiva: come quando si dice che “i poster di Pro vita offendono tutte le donne”. È sbagliato muoversi sempre sulla suscettibilità, sulla lagna. Bisogna intervenire sul servizio medico. E poi farsi una risata sui manifesti Pro vita.

Che situazione c’è negli ospedali?

Ci sono reparti con il cento per cento di medici obiettori. Gli aborti dopo il primo trimestre sono difficilissimi. C’è una legge mediocre, ripeto, applicata altrettanto mediocremente. Ecco i problemi reali. Bisogna investire le nostre energie in maniera razionale: la lagna è una scelta fallimentare.

Veniamo all’obiezione di coscienza. Anche in questo caso abbiamo a che fare con libertà contrapposte. Ci muoviamo su sabbie mobili?

Una prima risposta, un po’ estrema, potrebbe essere che oggi, a distanza di 44 anni dalla legge 194, non dovremmo più parlare di libera coscienza del medico. Per chi ha scelto ginecologia come specializzazione, e ha scelto di lavorare in una struttura pubblica, forse l’Igv dovrebbe rientrare tra gli obblighi professionali. Il difficile bilanciamento tra le libertà non si può sciogliere. Ma si può rovesciare, e risolverla drasticamente così: da un lato c'è il dovere professionale; dall’altra la possibilità di abortire. L’articolo 9 della 194, che viene poco letto e capito, in realtà opera questo bilanciamento: a leggerlo tutto, si scopre che tra l’obiezione di coscienza e il servizio di Ivg è più forte quest’ultimo. E che quindi sempre dovrebbe essere garantito il servizio, cosa che non è.

E la soluzione meno drastica?

Si potrebbe affrontare la questione dal punto di vista organizzativo e logistico, garantendo dei centri superspecializzati, delle aree di salute riproduttiva.Una sorta di percorso privilegiato per chi garantisce tutti i servizi. Così, senza creare reazioni feroci, i numeri potrebbero cambiare. Al momento la media nazionale dei medici obiettori è del 70 per cento, una cosa lunare. Anche recuperare informazioni diventa un’odissea. È il risultato di questo clima, un mischione di paternalismo e moralismo. L’intento è sempre punitivo.

E si usa l’emotività come una clava.

Esatto. La perversione è nell’usare quei dubbi che pure ci sono, quella crepa, come ricatto morale. C’è la convinzione di fondo che l’aborto sia un assassinio, e se non ti senti un “mostro”, moralmente, il problema chiaramente sei tu. In fondo è lo schema della vecchia legge: “partorirai con dolore”.

E se non partorirai, anche peggio.

Si prenda il delirio sulla RU486. “Così diventa troppo facile”, è una delle obiezioni, tra le più ubriache. Al di là della veridicità di questa affermazione, trovo molto interessante analizzarla perché la questione si riduce così: “magari non possiamo impedire l’aborto, ma che sia il più doloroso e difficile”.

Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, come è cambiata l’etica pubblica in Italia?

È molto complicato rispondere. Da una parte è indubbio che ci siano stati dei miglioramenti: siamo più liberi, la nostra possibilità di decidere di rifiutare alcune terapie è più accettata, anche se con molta ritrosia. Ma siamo un paese tutto sommato paternalista. Questo miglioramento, sul fine vita e il diritto di famiglia, convive con un’involuzione rispetto ad altri temi, con il ritorno un po’ feroce dell’idea di maternità come unica realizzazione femminile.

Parliamone, il corpo della donna come contenitore al servizio della finalità riproduttiva. Vale anche dal punto di vista normativo?

Da questo punto di vista dobbiamo ritenerci contenti. Fino all’altro ieri lo stupro era considerato reato contro la morale, c’era il matrimonio riparatore, fino agli anni ’60 le donne non potevano scegliere di fare le magistrate. Certo la legge non basta, ma è una condizione necessaria. Il mondo è complicato. Io cerco di mantenere un contatto con la realtà e un giudizio positivo.

La realtà non solo è complessa, è quello che è. Perché incatenarla in un susseguirsi di divieti?

Dire no è sempre la via più facile. Ma poi diventa una risposta ingiusta, parziale, allucinatoria. Prendiamo la maternità surrogata: l’idea di renderlo un reato universale è l’esempio perfetto. Non si tratta solo di dire no, ma della mitomania di dire no a tutto il mondo, per mettersi a posto la coscienza. Non ci si preoccupa di regolamentarla, di abbassare le ingiustizie, gli abusi. Ecco, la risposta punitiva è quella più semplice, ma spesso quella più sbagliata e inefficace.

E ora con le proposte di legge avanzate dal centrodestra si vuole rafforzare il divieto sulla gestazione per altri, estendendo il reato anche per il cittadino italiano all’estero.

Dispiace per Mara Carfagna, tra le più brave politiche di questa generazione politica. Ma ci sono proprio degli errori normativi, come ha spiegato Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, in audizione in Commissione Giustizia lo scorso 13 aprile. L’articolo 12 della legge 40 non è chiaro. Non spiega cosa intende per maternità surrogata, se vale sia per la commerciale sia per quella altruistica.

Ecco. Per alcuni si tratta semplicemente di “barbarie” sul corpo delle donne. Ma se consideriamo la discussione che attraversa il mondo femminista, lo scarto si fonda sul confine tra abuso e “atto d’amore”. Senza considerare l’opzione commerciale.

Differenziare libertà e abuso a volte non è semplice, a volte non lo possiamo sapere. Certo è che la strada meno ipocrita è quella della regolamentazione e non del divieto, tantomeno del reato universale. L’idea di alcune femministe è che sia impensabile a priori, secondo un principio valido per tutti, che una donna possa scegliere. Questa convinzione è una dramma, una resa. Non c’è nulla di più antifemminista di credere che la donna sia un corpo privo della volontà di decidere.

Un ragionamento che si potrebbe applicare anche alle sex workers, un altro tabù.

Assolutamente. È chiaro che lo sfruttamento esiste. Ma il problema è la premessa, la credenza, che nessuno sceglierebbe mai cose che noi non sceglieremmo per noi stesse. Un ragionamento pericoloso.

Per alcune il problema è ancora un altro: ragionare di maternità significa imprigionare la donna esclusivamente nel suo ruolo di madre.

Un ragionamento valido, ma scarsamente fantasioso. Essere madre significa un sacco di cose. Prendiamo la convinzione diffusa che una gestante possa non riuscire a staccarsi dal figlio. Ne siamo davvero così sicuri? Ho parlato con alcune gestanti surrogate e mi hanno detto altro.

Per esempio?

Alcune non hanno mai considerato quel figlio come loro. Ad alcune piace essere incinta. Altre ancora vogliono garantire un futuro migliore ai propri figli con i soldi che possono guadagnarne. E noi perché dobbiamo dire alle persone come vivere? Se lo slogan il “corpo è mio” vale per l'aborto, perché non posso fare da gestante per qualcun altro?