«Le ricordo che “nessuna civiltà viene distrutta da fuori senza essersi prima rovinata da sola, nessun impero viene conquistato dall'esterno, senza che precedentemente fosse già suicida. Una società e una civiltà si distruggono con le proprie mani quando hanno smesso di comprendere la loro ragion d'essere, solo quando il pensiero dominante attorno al quale erano prima organizzate è come diventato straniero a loro stesse”» . Nel suo nuovo libro, “Il buongoverno. L'età dei doveri” (Mondadori), in cui riflette, in forma dialogica, sulla perdurante crisi delle istituzioni e sulle molteplici contraddizioni che ad essa si accompagnano, il giurista e giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese cita un passo del volume “Bilancio della storia” dello storico francese René Grousset. Per poi domandarsi: «quando è cominciata la “rottamazione”, la critica dei vitalizi e delle auto blu, l'enfasi sulla riduzione delle imposte e sui diritti, invece che sulla solidarietà, sui doveri e sulla responsabilità?».

Cassese, lei ricorda che «la Costituzione non declina i diritti da soli, ma in congiunzione con i doveri». Ritiene che, allo stato attuale, doveri e responsabilità – anche in ambito politico – siano spesso trascurati o disattesi?

Chi legga oggi gli articoli 2 e 4 della Costituzione - mi limito a questi due - si rende conto della ricchezza e lungimiranza di quelle proposizioni. Pensi a queste parole della seconda parte dell’articolo 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. In un Paese nel quale vi sono più pensioni che posti di lavoro, non pensa che si dovrebbe chiedere ai pensionati di concorrere al progresso materiale e spirituale della società?

In che misura l'impressione d'impotenza legata all'azione di forze esterne – cui fa da complemento un'accesa rivalutazione del concetto di frontiera – ha contribuito all'attuale crisi sociale?

Le forze esterne sono, nello stesso tempo, vincoli e stimoli, e le due funzioni aumentano e diminuiscono secondo le posizioni relative dell’Italia rispetto ad esse. Basta leggere l’eccellente diagnosi di Carlo Bastasin e Gianni Toniolo, “La strada smarrita” ( Laterza, 2020), per rendersi conto di quello che è accaduto al nostro Paese dal 1995: un dodicennio di ristagno, seguito da quasi un ventennio di arretramento. Sono queste posizioni relative del nostro Paese rispetto agli altri che fanno la differenza.

«Il partito come mero seguito elettorale di una persona, che si sveglia con le elezioni». Quanto l'esasperato leaderismo, l'annosa retorica dell'uomo forte, ha nuociuto e nuoce tuttora al sano dibattito politico?

Nuoce doppiamente. Perché è il segno del vuoto dei partiti e della politica. E perché il vuoto è riempito da individui invece che da movimenti collettivi, nonché da slogan invece che programmi e progetti. Di qui una politica che guarda alla punta del proprio naso, senza riuscire ad andare oltre.

Lei osserva, in merito agli enunciati di legittimazione politica di Lega e M5S espressi durante il governo Conte I, che «si risolverà in poco anche la democrazia diretta». Trova che, nel contesto odierno, il “mito”' della democrazia diretta stia in effetti affievolendosi?

Il mito è stato messo nel dimenticatoio. E’ quindi servito solo come slogan elettorale. Alla prova del potere è sfumato, come doveva essere. La cosa più grave è che quel nucleo di idee e proposte concrete che poteva alimentare è stato anche esso accantonato. Un po’ di democrazia deliberativa, la partecipazione di gruppi e comunità ai processi di decisione, l’apertura dello Stato al dialogo. Ebbene, questo, che è il lato realizzabile e positivo della cosiddetta democrazia diretta, è stato archiviato, o meglio non ha mai visto la luce. Causa: assenza di cultura. Quelli che agitavano la democrazia diretta non sapevano neppure di che cosa parlavano.

Quali reputa essere le ambiguità di fondo di certo sistema referendario? E, in tema di referendum costituzionale, come valuta quello relativo alla riduzione del numero dei parlamentari che il 20 e 21 settembre gli italiani saranno chiamati a votare?

Tutto è stato detto, pro e contro. Mi limito a un rilievo di metodo. Il quesito è un esempio di “single issue politics”, tipico del populismo. Ma non si governa una società con questo metodo, cioè puntando a un singolo obiettivo. I contesti, l’ambiente, le implicazioni, contano. Perché altrimenti diciamo che le società moderne sono complesse? Si può governare la complessità in questo modo? Singoli rimedi possono esser buoni o cattivi, a seconda di quali altri rimedi li accompagnano, a seconda dei contesti nei quali si inseriscono, a seconda dei tempi nei quali vengono introdotti.

Alla cerimonia del Ventaglio a Montecitorio, il presidente della Camera Roberto Fico dichiara: «Il Parlamento è la prima task force degli italiani». Come giudica la qualità dell'attività parlamentare degli ultimi mesi, segnati dalle contingenze dettate dall'emergenza Covid- 19?

Il povero presidente non sa neppure che cosa significhi task force, d’altra parte come tutti gli inconsapevoli utilizzatori di questa espressione negli ultimi mesi. Svuotato o depotenziato: sono questi i termini usati per il Parlamento. E quindi la Repubblica è deparlamentarizzata (anche questo termine non è usato da me per la prima volta). Ormai il Parlamento è organo di ratifica e peggioramento: riceve decreti legge e li converte in legge, aggiungendovi i “desiderata” di questo o quel gruppo o ministero. Il recente decreto agosto (si va a un decreto al mese) ha raddoppiato il numero di articoli nel percorso parlamentare. Questo produce paradossi numerosi. Il primo è: troppe leggi, nessun Parlamento.

Parliamo infine di altri due temi sollevati nel suo libro: il sempre maggiore potere delle procure e la durata dei processi. Quali problematiche producono tali fattori nell'iter giudiziario?

Possiamo dire che abbiamo ormai due giustizie. Una è quella ordinaria, che segue il suo ritmo lento: arriva tardi, e quindi gli interessi maggiori cercano strade alternative di soluzione dei conflitti. L’altra è la giustizia delle procure, che giudicano senza processo, mediante “naming and shaming”. I penalisti maggiori sono concordi nel rilevare che il sistema ha abbandonato i caratteri liberali originari.