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cassese giudice
«Trovati un maestro», è un suo consiglio ai giovani. Sabino Cassese, maestro, lo è attraverso le generazioni. Per gli studenti, per i lettori, per noi avvocati amministrativisti, e non solo. Per chi entra a contatto con il mondo delle amministrazioni pubbliche (e nella categoria ci siamo un po’ tutti). Un maestro a livello collettivo: un intellettuale con cui confrontarsi sui punti nevralgici del nostro ordinamento. Tra questi, vi è certamente l’assetto attuale della giustizia amministrativa. Un “potere assoluto”, si è detto. Comunque un mondo a sé, fondamentale e un po’ esoterico.
Professor Cassese, nel nostro ordinamento se una controversia riguarda un potere pubblico il giudice non è quello ordinario ma quello amministrativo. Insomma, c’è un dualismo di giurisdizioni. Ma la magistratura amministrativa, come struttura, deve essere indipendente rispetto ai poteri che giudica?
Abbiamo ereditato il modello francese, quello dualistico. È un lascito dello statalismo dei cugini d’oltre Alpe. Con una differenza: in Italia, il giudice posto al vertice è la Corte di cassazione, in Francia il Tribunale dei conflitti, composto a metà di giudici amministrativi e a metà di giudici ordinari. Dunque la correzione italiana va nel senso del monismo. La magistratura amministrativa ha il suo organo di garanzia, che funziona bene e garantisce indipendenza e imparzialità. Tuttavia, permane la funzione consultiva del Consiglio di Stato e permane l’utilizzazione di magistrati amministrativi, dei due livelli, quali consiglieri di organi esecutivi. Quest’ultimo accorgimento presenta vantaggi, perché porta nell’amministrazione l’esperienza plurima dei magistrati, ma anche l’inconveniente di costituire un’eccezione al principio di imparzialità e di indipendenza.
La funzione consultiva del Consiglio di Stato si estende agli atti normativi. Anzi, qualche volta leggi fondamentali – ad esempio, il codice dei contratti pubblici – sono scritte direttamente dal Consiglio di Stato. Non è un problema se un giudice scrive le norme che poi è chiamato ad applicare?
Il problema presenta due aspetti. Innanzitutto quello dell’indipendenza di un organo giudicante che collabora alla stesura delle leggi. Apprezzo molto l’esperienza francese nella quale il Consiglio di Stato si è impegnato a fondo in quest’opera, iniziando, con quel grande giudice che è stato Guy Braibant, la codificazione a diritto costante del diritto francese. Si tratta di una operazione che ha visto impegnati il capo del governo, il Conseil d’État e le amministrazioni interessate, quindi con una stretta collaborazione tra specialisti di settore e generalisti dell’organo giudiziario. Il secondo problema riguarda l’attitudine dei consiglieri di Stato come redattori di norme. Purtroppo, quello che fanno negli uffici legislativi dei ministeri e nei loro gabinetti, fa propendere per un giudizio critico. Le sentenze vanno scritte con uno stile completamente diverso dalle norme. Scrivendo la sentenza, il giudice risponde agli argomenti delle parti. Questo non è il caso delle norme. La principale ragione per cui le leggi italiane sono scritte malissimo deriva proprio dalla incapacità dei magistrati amministrativi di spogliarsi di quella veste, quando redigono norme.
Un altro elemento legato al ruolo storico del Consiglio di Stato è la nomina di un quarto dei suoi componenti da parte del governo. Non sarebbe meglio, ad evitare ogni ipotesi di condizionamento, eliminare questo potere di nomina?
Questa che appare un’anomalia, ha tuttavia funzionato bene. Escludere la nomina governativa potrebbe significare l’inizio della trasformazione della giustizia amministrativa. Può essere utile fare il primo passo, purché si sappia qual è il percorso successivo, se un modello di tipo inglese (un apparato unico) o un modello di tipo tedesco (più apparati, ciascuno dotato di autonomia e indipendenza).
Ma c’è una magistratura amministrativa unitaria, o prevale la diversità – anche di funzioni – tra giudici Tar e consiglieri di Stato?
Diversità di funzioni e anche di preparazione dei magistrati possono essere anche utili perché accentuano il pluralismo, a condizione che vi sia una traiettoria condivisa, perché, come scrisse all’inizio della storia del dualismo francese un noto magistrato, “giudicare l’amministrazione è anche amministrare”.
Da sempre ai consiglieri di Stato sono conferiti incarichi extragiudiziari dal potere esecutivo. Alcune cautele sono ora previste nella legge 71/2022, che però è una legge delega (e l’attuazione, da giugno di quest’anno, è stata rinviata a fine 2023). Ma gli incarichi extragiudiziari possono incidere sull’indipendenza del giudice amministrativo?
Non c’è dubbio che questa costituisca un’anomalia nell’ambito della separazione tra amministrazione e giurisdizione sull’amministrazione. Tuttavia, va anche considerato l’altro aspetto. Le amministrazioni pubbliche in questo momento sono debolissime per carenze di vertice, perché lo spoil system, introdotto da governi del centro sinistra alla fine del secolo scorso, ha prodotto guasti gravissimi. Dunque dei giudici amministrativi che suppliscono alle carenze dell’amministrazione attiva come capi di gabinetto o in altre delle molte funzioni che si svolgono nella gestione dell’amministrazione, c’è bisogno.
Forse si può distinguere tra gli incarichi, ad esempio, tra essere capo di gabinetto o capo ufficio legislativo?
Inutile nascondersi la realtà. Al di là delle funzioni, che possono essere diverse, i magistrati chiamati a collaborare con l’esecutivo, nei molteplici ruoli, svolgono nello stesso tempo un ruolo politico e gestionale. Come ho già detto, della loro presenza c’è bisogno, anche se costituisce un’anomalia nell’ordine della Repubblica.
I giudici amministrativi sono un po’ un mondo a parte. E il Cpga è una sorta di Csm di quel mondo. C’è il rischio dell’autoreferenzialità?
Finché permane la struttura dualistica del sistema giudiziario, può essere persino utile quella rigida separazione, anche perché la scuola della magistratura ordinaria è prigioniera del “piccolo mondo antico” della magistratura ordinaria: basta vedere gli insegnamenti che si impartiscono, le persone che sono invitate a tenere corsi, l’attenzione per i problemi dell’efficienza della giustizia, e così via.
I componenti “laici” del Cpga sono scelti da Camera e Senato senza alcuna consultazione. L’effetto è che chi entra nel Cpga non conosce quel mondo. Non sarebbe preferibile un coinvolgimento dell’avvocatura nelle sue strutture rappresentative?
Il pluralismo delle provenienze in organi collegiali di quel tipo farebbe benissimo, anche per evitare eccessivo spirito di corpo.
Un terzo di tutti i ricorsi ai Tar va al Tar Lazio, che ha una propria competenza funzionale su numerose materie. Perché – accanto alla competenza territoriale dei Tar – c’è anche la competenza funzionale?
La competenza funzionale del Tar Lazio è semplicemente il riflesso del residuo centralismo del nostro sistema amministrativo. Ma questo sta persino riprendendo quota, perché le Regioni non hanno capito che devono uscire dalla strettoia dei rapporti Stato-Regioni per costruire una Repubblica regionale, ciò che comporta una collaborazione orizzontale tra le regioni. Un piccolo indicatore di questa miopia e scarsa ambizione delle Regioni è stato fornito durante la pandemia, quando malati delle regioni del Nord sono stati accolti in ospedali tedeschi. Ci si è chiesti se non c’erano ospedali italiani in altre regioni?
È giusto – per migliorarne la produttività – far aiutare i giudici amministrativi da personale non giudiziario (sul modello anglosassone del “clerk”)?
Negli ultimi anni ci si è resi conto che il “clerk” può essere utile a tutti i livelli e l’esperienza iniziata, per quanto ne so, è positiva. Dunque, c’è bisogno di qualcosa di più di un cancelliere, c’è bisogno di un assistente, che raccolga i precedenti, sappia scegliere i contributi della cosiddetta dottrina, sia funzionale all’attività del giudice.
In conclusione: il sistema attuale della giustizia amministrativa, frutto di una lunga storia, può ritenersi adeguato al rinnovato art. 111 Cost. sul giusto processo e all’obbligo di garantire la parità tra le parti?
In larga misura non è adeguato, ma per adeguarlo occorrerebbe maturare un disegno che non riesco a vedere nella cultura giuridica e tantomeno in quella politica; e, poi, essere capaci di realizzarlo, e la capacità di realizzazione manca ancora di più della capacità di formulare nuovi disegni organizzativi.
L’intervista si chiude qui, su queste parole del professor Cassese. Al lettore la libertà di interpretarle. La mia impressione è che non si tratti di una considerazione sconsolata. Al contrario, a me sembra il richiamo ad una riforma della giustizia amministrativa che sia complessiva e non improvvisata: non facile, ma necessaria.