I vecchi amori, si sa, non si scordano mai. Ogni volta che Antonio Ingroia, ora felicemente avvocato, sente in pericolo di esito infausto il processo - il suo processo - in corso da più di tre anni a Palermo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella lontana stagione delle stragi, insorge per dolersene. E per ribadire, come ha fatto sul giornale diretto da Marco Travaglio, le sue convinzioni colpevoliste, pur con qualche concessione, come vedremo, sugli imputati che vengono via via assolti in processi più o meno paralleli. È accaduto prima col generale dei Carabinieri Mario Mori, poi con l'ex ministro democristiano Calogero Mannino.L'assoluzione di Mannino in primo grado e con rito abbreviato, per quanto la sentenza sia stata appena depositata, a un anno di distanza dal verdetto, sembra avere particolarmente infastidito Ingroia per le circostanze nelle quali si sono conosciute, o si è cominciato a conoscere le motivazioni. Cioè, dopo che alcuni, come Giuseppe Sottile sul Foglio e io su Il Dubbio, ci eravamo permessi di lamentare la troppo lunga attesa del deposito della sentenza, pur riconoscendo la complessità della documentazione e il carico di lavoro della giudice competente dell'udienza preliminare, Marina Petruzzella.Non l'avessimo mai fatto. Ingroia ha praticamente accusato la sua ex collega di essersi lasciata condizionare in qualche modo dalla nostra fretta - si fa per dire, a un anno di distanza, ripeto, dal verdetto - e di avere partorito la classica gattina cieca. Di avere, in particolare, scambiato un documento per un altro, un fatto per un altro e di avere quindi sbagliato. Di suo, Ingroia ha onestamente riconosciuto - e gliene va dato atto altrettanto onestamente, anche se la cosa mi sembra di per sé assai spiacevole- che l'accusa può avere sopravvalutato il ruolo di Mannino nella presunta trattativa, scambiandolo praticamente da minacciato di morte, e quindi impegnato umanamente a salvarsi, a promotore, regista o quant'altro di un immondo scambio di concessioni fra lo Stato e la mafia.Ma anche alla luce di questa considerazione non capisco la durezza dei rilievi di Ingroia alla giudice di Palermo. Che mi è sembrata ad un certo punto colpevole, agli occhi dell'ex pubblico ministero, di accondiscendenza alla fretta, ripeto, di una stampa forse maldisposta verso l'altro processo, sino a scambiare un papello per un altro fra quelli promessi, minacciati e infine consegnati ai magistrati da quel teste e al tempo stesso imputato assai strano che è Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, prestatosi a fare praticamente da intermediario, prima di morire, fra lo Stato e la mafia.Se questa impressione non dovesse risultare corretta, come invece ritengo, sarei il primo a scusarmene, essendo l'amico Piero Sansonetti e io stesso, come altri colleghi in analoghe situazioni, stanchi ed economicamente non più attrezzati, diciamo così, a difenderci sul piano civile e penale da magistrati feriti dall'esercizio del diritto di opinione, anche critica, verso le loro iniziative o sortite.Certo è che non io, né Sansonetti, che ha fatto ricorso all'immagine della "boiata pazzesca", né altri colleghi, ma la giudice di un tribunale della Repubblica ha denunciato la "manipolazione" di un documento adoperato dall'accusa per riscrivere la storia d'Italia del biennio stragista 1992-93 e impostare un processone che si trascina da più di tre anni. Ed è stata sempre lei, la giudice di un tribunale della Repubblica italiana, a lamentare ironicamente lo spazio "luminoso" dato dai giornali e dalle televisioni alle accuse supportate da un personaggio come Massimo Ciancimino.Nella denuncia coraggiosa di questa giudice ho trovato la conferma della teoria del buon Luciano Violante, convinto che sia più facile e utile separare le carriere dei magistrati e dei giornalisti, dovendosi forse ricorrere ad una modifica della Costituzione per separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. E Dio solo sa, come sta dimostrando la campagna referendaria in corso, quanto improba sia l'avventura di una riforma costituzionale.A questa campagna sta legittimamente e coerentemente partecipando, da dichiarato e vecchio "partigiano" della Costituzione in vigore dal 1948, anche Ingroia, sul fronte del no. E non so se infastidito pure lui, come qualche mio amico, del fatto che questo referendum sia ormai diventato un supplemento del congresso del Pd di tre anni fa, per un tentativo di rivincita degli sconfitti di allora su Matteo Renzi, contando stavolta sull'aiuto esterno, consapevole o no, dei vari Grillo, Berlusconi, Salvini, Giorgia Meloni, Zagrebelsky, Onida e dello stesso Ingroia.Sono gli inconvenienti del melodramma di un referendum già una volta assegnato qui alla felice letteratura eduardiana del Natale in casa Cupiello. Dove il presepe non piaceva mai al figlio del protagonista.