Mai banale nelle sue analisi, brillantissimo nelle polemiche, sarcastico al momento giusto, provvisto di una memoria formidabile alla sua bella età di 89 anni, mai piegato da minacce e pericoli, uscito indenne dai marosi di Tangentopoli in cui tentarono maldestramente di coinvolgerlo, Rino Formica è l'uomo giusto al quale si è affidato il buon Francesco Battistini per farsi accompagnare nel racconto in tre puntate della storia del Partito Socialista su "Sette", il supplemento del Corriere della Sera, per la serie "C'era una volta la Prima Repubblica". Una storia seguita a quella, sempre in tre puntate, raccontata da Vittorio Zincone con l'aiuto di Ciriaco De Mita. Ne verrà poi una del Pci, non so da chi scritta, e con quale voce di supporto. Questa volta tuttavia Formica mi ha sorpreso nella rievocazione degli anni di Bettino Craxi, che furono i migliori anche per lui, chiamato a grandi responsabilità di governo col primo presidente socialista del Consiglio. Di cui fu collaboratore fedele e franco anche nel partito: fedele non avendone mai tradito la fiducia e franco non avendogli mai nascosto il dissenso, quando c'era.Mi ha sorpreso, di Formica, la rievocazione non di Craxi, ma di Sandro Pertini, di cui egli ha parlato come di un presidente della Repubblica che, pur «non comportandosi male nei momenti istituzionali, fu succube di Antonio Maccanico», da lui nominato al vertice della burocrazia quirinalizia come Segretario generale avendovi già collaborato a Montecitorio da presidente, e non solo perché sponsorizzato da Ugo La Malfa e dall'allora segretario della Dc Benigno Zaccagnini.Formica si è detto stupito che "la famiglia" abbia pubblicato i diari di Maccanico - Tonino per gli amici, a cominciare dal conterraneo Ciriaco De Mita - perché sarebbero «una cosa impressionante». «Una cosa golpista, di uno che aveva fatto al Quirinale un suo partito personale e che manovrava Pertini come voleva. Lo considerava una specie di coglione che stava lì», ha detto l'ex ministro socialista. Che peraltro ricorda Maccanico, a sua volta, come "quintessenza di Scalfari", per cui si potrebbe dire che la Repubblica presieduta dal povero Pertini e quella di carta fondata e diretta da "Barpapà", affettuoso soprannome dello stesso Scalfari in redazione, furono una cosa sola.Eppure io di Maccanico ricordo anche i capelli dritti e il volto sgomento quando al Quirinale Pertini volle chiudere alla maniera sua una vertenza dei controllori di volo che rischiava di paralizzare il Paese. Leggi e regolamenti, secondo Tonino, sarebbero stati violati dall'incontenibile presidente nel momento in cui volle mettere in riga a modo suo i controllori militari di volo. Andrò adesso a leggermi i suoi diari per verificarne se e come ne parla.Di Maccanico ricordo anche una cortese ma laconica risposta telefonica ad una lettera aperta a Pertini che nel 1985, negli ultimi mesi del suo mandato presidenziale, gli scrissi dalle colonne della Nazione per segnalargli il mio imminente arresto. Ero accusato di avere pubblicato due anni prima un documento riservato sulle connessioni internazionali del terrorismo mandato dai servizi segreti alla commissione parlamentare d'inchiesta sul delitto Moro, rapito e ucciso nel 1978 dalle brigate rosse. Esso era stato prudentemente chiuso nella cassaforte della commissione, senza lasciarlo discutere, perché stavano sopravvenendo lo scioglimento delle Camere e le elezioni politiche. Ma qualche mese dopo la sua comparsa sulla Nazione il rapporto fu pubblicato in uno dei volumi dei lavori della commissione parlamentare, come allegato di una delle relazioni di minoranza. Pensate un po' quanto fosse riservato. Ma il pubblico ministero si ostinava a chiedermi da chi lo avessi ricevuto, deciso anche ad usare le manette.Maccanico mi chiamò per dirmi, sconsolato, che il presidente poteva fare ben poco per la solita autonomia e indipendenza della magistratura. Ma il giorno dopo, di prima mattina, com'era solito fare, tirandomi quindi giù dal letto, mi chiamò Pertini in persona per dichiararsi "esterrefatto" della mia vicenda ed assicurarmi che sarebbe intervenuto per «evitare - disse - di vergognarmi di essere il presidente di questa Repubblica».Ne verificai gli effetti -credo - la settimana successiva, quando l'avvocato Adolfo Gatti mi accompagnò dal giudice allora istruttore. Che, senza neppure interrogarmi, mi notificò un ordine di arresto, obbligatorio - mi precisò - per l'accusa di violazione del segreto di Stato, mandandomi però non a Regina Coeli ma a casa. Dove avrei dovuto aspettare cinque giorni per ottenere la libertà che si chiamava allora "provvisoria", in attesa della fine delle indagini e del processo. I giorni divennero invece otto, scavalcando un fine settimana, perché il Pubblico Ministero volle avvalersi di tutti e cinque i giorni a disposizione per emettere il suo parere, obbligatorio per quanto non vincolante.Nel supplemento, diciamo così, di arresti domiciliari feci diffondere la notizia e scoppiò un finimondo mediatico. L'allora presidente del Consiglio Craxi mi chiamò da Bruxelles, pur sapendo bene che il mio telefono era ormai sotto controllo, per avvertirmi che il giorno dopo, al ritorno a Roma, avrebbe formalmente fatto comunicare alla magistratura che quel documento non poteva ritenersi più coperto da segreto di Stato - valutabile per legge solo dal capo del governo - nel momento della trasmissione alla commissione parlamentare d'inchiesta. E ciò valse in effetti a chiudere, sia pure l'anno dopo, la vicenda col mio proscioglimento, senza neppure il rinvio a giudizio.Ebbene, nella tardissima serata del giorno in cui fu emesso il comunicato di Palazzo Chigi sulla lettera alla Procura Generale della Corte d'Appello di Roma vidi nell'anticipo televisivo delle prime pagine dei quotidiani un tiolo di Repubblica alquanto polemico, del tipo: Craxi salva l'amico Damato. Titolo di richiamo che però non trovai nella copia acquistata in edicola da mia moglie l'indomani mattina. Seppi poi, da fonte interna al giornale, che aveva telefonato, furioso, Pertini per protestare contro il tentativo di presentare come un favore quello che era stato solo un dovere di Craxi, e un mio diritto.Se quella fosse dipendenza di Pertini da Maccanico, e da Repubblica, lascio a voi giudicare. Ma questo è solo un fatto personale, utile tuttavia - credo - a farsi un'idea dell'uomo: rude con tutti, anche con i magistrati, da lui d'altronde richiamati pubblicamente una volta al dovere non solo di essere ma anche di apparire imparziali.