Pierluigi Bersani si trova ad affrontare l’ingrato compito di dire nì al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale. Non può fare campagna diretta per il no, ma allo stesso tempo non può sottomettersi politicamente alla direzione indicata dal premier e capo del suo partito, Matteo Renzi. Forse per questo è costretto a prendere posizioni che se analizzate risultano incomprensibili, soprattutto se si ha a cuore il processo democratico. La frase dell’altro ieri rientra in questa casistica. Ha detto infatti Bersani che «il referendum rischia di dividere il Paese» come se fosse un demerito, come se le grandi battaglie democratiche non siano state fatte creando una spaccatura. Il referendum che dà vita alla Repubblica italiana, il 2 e 3 giugno del 1946 - e che chiude definitivamente con l’epoca fascista - si conclude con un Paese spaccato: i favorevoli alla nascita della Repubblica sono il 54,3 per cento; i contrari sono il 45,7 per cento. Se allora i nostri padri costituenti avessero ragionato come Bersani, non avrebbero affrontato questo importante passo. Avrebbero aspettato di convincere tutti e chissà come sarebbe stata la Storia d’Italia. Ma per fortuna furono più coraggiosi dell’ex segretario Pd e non ebbero paura di spaccare e dividere. La democrazia si conquista anche così, con forzature, salti in avanti, balzi della tigre.In realtà la frase di Bersani ha un precedente, anche molto illustre: la campagna del partito comunista italiano per impedire di fare il referendum sul divorzio. Lo slogan recitava esattamente così: “Non si può spaccare il Paese”. I dirigenti comunisti, dopo la raccolta firme per abrogare la legge sul divorzio, approvata nel 1970, fecero di tutto perché non si andasse al referendum. Non si poteva dividere il Paese per una “questione borghese”. Tentarono di mediare con il Vaticano, allora c’era Paolo VI, trattando con il segretario di Stato Jean Marie Villot: si voleva rinviare il referendum modificando la legge. Le firme raccolte non sarebbero più servite e se ne sarebbero dovute raccogliere di nuove da zero. Per fortuna c’erano Pannella e i Radicali: si rifiutarono di modificare in peggio la normativa e preferirono “spaccare il Paese”, sapendo che avrebbero vinto. Era il 1974, l’Italia stava cambiando velocemente. Il risultato premiò i Radicali e quell’Italia che spingeva sull’acceleratore delle riforme. Il risultato fu quello di un’Italia divisa in due: coloro che votarono contro l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini furono il 59,26 per cento, quelli che invece volevano che venisse abrogata furono il 40,74 per cento. Il Pci si convinse verso la fine che era meglio appoggiare il No al referedum, spendendosi in questa “battaglia borghese” che di fatto ha cambiato la vita di tante persone, soprattutto di tante donne, che grazie al coraggio dei Radicali hanno potuto affermare un loro diritto. Eh sì, Bersani questa volta ha sbagliato riferimento culturale e politico, almeno che più che di un errore non si tratti di una posizione che viene da lontano, da una storia di cui i nuovi Pd non riescono a liberarsi. Spaccare il Paese insomma a volte è una risorsa, la migliore che si possa avere. Lo abbiamo appena visto con le Unioni civili: il timore di forzare ha bloccato per decenni la legge, mentre il Paese era già cambiato. Perché forse a non essere pronta, ora come allora, è più la politica della società, capace invece di correre molto più dei suoi leader.