Si dovrebbero vergognare - sento dire - personaggi come Gabriel Garcia Marquez e Francois Mitterrand. Cioè il più grande scrittore latino americano del novecento e uno dei più autorevoli leader politici europei del dopoguerra (insieme, forse, a De Gaulle, a Brandt, a Moro). Dovrebbero vergognarsi - se capisco bene - perché Cesare Battisti ha confessato quattro omicidi. Glielo chiede il più importante giornale italiano, cioè il Corriere della Sera. Glielo chiedono quasi tutti gli opinionisti di un certo livello. Quale è il motivo della vergogna? Avere sostenuto i propri dubbi sulla completezza e la regolarità dei processi ai terroristi italiani negli anni Settanta e Ottanta, e in particolare dei processi a Cesare Battisti, celebrati in contumacia. Lo dico in un altro modo: dovrebbero vergognarsi di avere preteso la superiorità dello Stato di diritto.

Marquez e Mitterrand non sono più tra noi e non possono difendersi. Non credo che avrebbero difficoltà a farlo. Nel mio sedicesimo al quadrato io posso farlo. Cesare Battisti ha confessato. Io no

Sono sommerso da messaggi, da assalti twitter, da intimazioni: “tu lo hai difeso, ora che ha confessato perché non chiedi scusa, perché non ti vergogni?”. Ieri sera mi ha telefonato anche Cruciani, della trasmissione radio “la Zanzara”, e mi ha processato più o meno come se io fossi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse o dei Pac. Cruciani però me lo aspettavo. Ha sempre sostenuto la sua certezza sulla colpevolezza di Battisti e ne ha fatto un cavallo di battaglia. Non si è mai impancato a garantista. Mi hanno colpito di più gli anatemi di intellettuali liberali di primissimo ordine, come Pigi Battista e Carlo Nordio. Battista, appunto, è quello che ha preteso la vergogna, Nordio, che è un giurista preparatissimo, ha preteso le scuse. Preparatissimo, sicuramente, ma alle volte, forse, un po’ troppo passionale.

Vorrei intanto spiegare quale è stata la mia posizione, e quella di quasi tutta la minuscola minoranza di persone che in questi anni non si è arruolata all’esercito degli accusatori. Non ho mai sostenuto l’innocenza o la colpevolezza di Cesare Battisti, non avrei potuto farlo sulla base delle mie conoscenze: ho solo fatto osservare che per condannare una persona occorrono le prove, e che queste prove devono essere esibite al processo, devono essere al di là di ogni ragionevole dubbio e devono riguardare la responsabilità della singola persona nel singolo crimine. E ho sostenuto la tesi, non particolarmente spericolata, che negli anni Settanta - e soprattutto negli anni Ottanta - i processi ai terroristi erano un po’ grossolani e spesso si basavano esclusivamente sulla testimonianza e sulle accuse dei pentiti. Così andò anche il processo a Battisti, e io penso che questo fu un errore e che le condanne furono assai discutibili. La stessa cosa pensarono - non solo su Battisti, ma su molti fuggiaschi italiani, di sinistra e di destra - le autorità di diversi paesi stranieri, che non si fidavano dei nostri tribunali e dei modi nei quali da noi si svolgevano i processi. E per questa ragione rifiutarono, e in parte ancora rifiutano, l’estradizione.

Io credo che tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la politica italiana commise un errore drammatico. Spaventata dal montare del terrorismo ( e su un altro versante della mafia) delegò alla magistratura il compito di vincere la guerra. Dicendo alla magistratura proprio così: “Siamo in guerra, radete al suolo”. E consentendole di usare i mezzi giustificati dai fini, ma non dal diritto. Da allora la politica non è più riuscita a riprendersi lo scettro. Ha pagato un prezzo esorbitante in termini di autonomia.

Battisti - ho letto - nella sua dichiarazione ha detto che lui era in guerra. Già, lo sapevo. Io però non ero in guerra. Io all’epoca ero giovane, ma ero un militante del Pci, un giornalista dell'Unità e la mia battaglia contro il terrorismo l’ho combattuta fino in fondo, in modo rigorosissimo, anche prendendo i rischi che qualunque giornalista serio, in quegli anni, prendeva ( oggi sento intimazioni di resa da molte persone che allora non erano schierati dalla stessa parte); e tuttavia, anche in polemica con molti esponenti del mio partito e del mio schieramento, credevo che la lotta andasse condotta, da noi, solo all’interno dello stato di diritto. Che questo fosse essenziale. Pensavo che si ci fossimo fatti trascinare in guerra dal partito della lotta armata, in quello stesso momento avremmo perso.

Lo feci allora, lo faccio ancora oggi. Non capisco l’obiezione che mi fanno: “in questo modo oltraggi le vittime”. Non ci penso nemmeno a oltraggiare le vittime, per le quali ho sempre avuto ( e, quando mi è capitato, ho dimostrato) un grande rispetto e anche affetto. Chiedere garanzie per gli imputati - provo a spiegarlo spesso, con scarsa fortuna - non vuol dire offendere le vittime. La gravità o l’odiosità di un reato non prevede la riduzione delle garanzie e dei diritti, casomai ne prevede l’innalzamento. Se ti condanno senza prove per divieto di sosta, poco male, se ti condanno per strage è diverso.

Ancora ieri molti mi hanno detto: “Ma ora ha confessato. Non è questa una prova? E non è la prova che il processo era giusto?”. No. E non perché posso avere anche dei dubbi sulla confessione di una persona detenuta, in isolamento, e con la prospettiva di restare in isolamento tutta la vita ( posso prendere in considerazione la confessione solo se su questa base si svolgesse un nuovo processo). Ma per un’altra ragione: le prove devono venire prima della condanna, non dopo. Non mi sembra un concetto troppo astruso. Eppure pare di sì. Se oggi, per assurdo, saltassero fuori le prove che il capitano Alfred Dreyfus effettivamente passò i segreti militari ai tedeschi, durante la guerra franco- prussiana, questo non toglierebbe nulla alla follia del processo che subì. Perché quel processo fu assolutamente irregolare. E il j’accuse di Zola resterebbe un monumento al Diritto e un pilastro della modernità.

So che è molto difficile spiegare la differenza tra Stato di Diritto e giustizia universale, o tra Stato di Diritto e verità suprema. Però vi assicuro che esiste questa differenza, e ciò che garantisce il crescere della civiltà non è la giustizia universale e unica, né la verità suprema: è lo Stato di Diritto.