Per capire quel che accade in politica nel nostro Paese bisogna prendere il fiato e correre lontano. Solo a distanza di sicurezza, con aria mondata dal venefico rumore di fondo dei prolassi esternatori dei protagonisti e dei commenti ansiogeni che si leggono qua e là, si può cercare di intuire la linea madre della marcia degli attori sulla scena pubblica. E il sostantivo teatrale qui viene usato nel suo significato pieno e non traslato di professionisti della rappresentazione. C’è chi s’è preso la briga di tenere la contabilità delle liti tra Lega e Cinque Stelle, documentando sette irriducibili “contrasti di programma” solo nelle ultime settimane ( condono fiscale e flat tax, autonomia, via della Seta, family day, Alta Velocità, stop al Salva Roma nel decreto Crescita, il caso Siri), e tacendo ovviamente dei baratri di irriducibile conflitto tra i Gialli e i Verdi nei dieci mesi di governo consolare a tre ( Conte, Salvini, Di Maio).

Il caso Siri, dilagato sui media nella Settimana di Passione leghista, fa fiorire editoriali in versione obituaries, necrologi per governo e legislatura. Si scopre addirittura che Salvini avrebbe preparato un piano per andare a votare nel mese di ottobre. Può essere, ma il contingente non c’entra. C’è un calcolo più antico e ragionato, che parte con le prime impennate dei sondaggi, i carotaggi che Salvini ha fatto agitando, nel suo sterminato guardaroba di felpe, il Rodomonte che è in lui, sparandola ogni volta più grossa, sorpassando da destra e da sinistra l’alleato e, come dice lui, il premier, scoprendo con sorpresa e compiacimento che nessuno reagisce oltre la faccia truce da minimo sindacale, facendo strame di galateo istituzionale e di senso del ridicolo. Ma anche raccogliendo il succo di quel che circola nel “sentiment” popolare. Pagnoncelli fa l’expertise del “peso” della Lega in questo momento tra i gradimenti del pubblico: il 37%. Roba da Democrazia Cristiana di quando la Berta filava. Il sondaggista si sbaglierà pure di qualcosa, ma i suoi colleghi tutti in coro danno la stessa fotografia: Salvini superstar, Di Maio in calo ma saldamente al secondo posto, il Pd che arranca sui numeri di marzo 2018 e non riesce ad avvantaggiarsi della nuova era Zingaretti style.

Qualcuno potrà anche domandarsi come mai la Lega riesca non solo ad uscire indenne ma addirittura ad incrementare il suo peso dopo il caso Siri. Qualcun altro potrebbe argomentare sull’inattualità dell’indignazione e sulla latitanza del senso civico. O più semplicemente sulla mitridatizzazione di un popolo che in maggioranza vuole somigliare sempre di più ai suoi governanti- uno vale uno- e dunque fa finta di non vedere quello che può disturbarne l’identificazione.

Insomma: forse ottobre non è la data giusta delle elezioni. Ma sarà ben difficile che si superino i primi mesi del prossimo anno. E non per incompatibilità ideologica tra i Gialli e i Verdi, no. Quello è il dato da cui partiamo e che non ha impedito né impedirà il condominio di governo. Ma per calcolo semplice di chi oggi gode di un consenso che così largo non si vedeva da qualche decennio e che sa però che non sarà a lungo così. E dunque deve andare all’incasso. Il prima possibile.