Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione all’università Mercatorum di Roma, spiega che «il destracentro vuole cambiare il segno dell’egemonia culturale del paese» e che «soprattutto per Fdi, l’occupazione della Rai è una priorità assoluta». E aggiunge: «Ci sarà una certa fuoriuscita da parte del pubblico che culturalmente e storicamente si riconosce in Rai 3» ma «non a favore di Rete4, bensì di La7». E sul futuro del servizio pubblico è netto: «Non è mai accaduto e non può mai accadere che la Rai si trasformi nella BBC ragiona - perché il ruolo dei partiti in Rai è ancora molto rilevante, così come è ancora centrale quello del governo».

Professor Panarari, pensa che in Rai sia in atto una rivoluzione o stiamo assistendo ai soliti capovolgimenti che seguono all’entrata in scena di un nuovo governo?

I cambiamenti a cui stiamo assistendo si traducono in uno spoyls sistem che in assoluto non è una novità perché caratterizza la storia del servizio pubblico che un legame a dopo filo con i partiti. Tuttavia, rispetto al passato vediamo che col passare del tempo si è perduta quella dimensione di lottizzazione che era anche garanzia di un certo pluralismo culturale e politico del paese, all’insegna di un equilibrio piuttosto statico ma che puntava a garantire una serie di linee di qualità editoriale e pedagogica rispecchiando le diverse voci presenti nella società. Un’idea, come dire, molto “italiana” di servizio pubblico.

Finita la lottizzazione però quasi ogni governo ha cercato di cambiare la Rai a modo suo: quale le sembra l’idea di Rai che ha in mente Meloni?

La dimensione della lottizzazione si è via via perduta per la trasformazione della società e la caduta del ruolo pedagogico dei grandi partiti di massa, che si è via via scolorito. Quel che è oggi appare evidente è che il destracentro vuole cambiare il segno dell’egemonia culturale. È una vexata quaestio e possono esistere dubbi sulla presenza di un’egemonia culturale della sinistra nel paese, ma questa è la via che sta seguendo il governo Meloni. Soprattutto per Fdi, l’occupazione della Rai è una priorità assoluta.

Come si realizza tale progetto nel contesto del servizio pubblico?

La Rai rientra in questo progetto di cambiamento degli equilibri culturali, ma mi sembra un disegno fuori tempo massimo perché vuole utilizzare quella che tende a definire la maggiore agenzia culturale del paese ma lo fa a prescindere dal pubblico e quindi delle trasformazioni profondissime nella società rispetto alla ricezione dei mezzi audiovisivi. Ormai il pubblico fruisce dei contenuti in maniera molto più discontinua e interrotta, basta pensare allo streaming, e dunque non si può pensare di cambiarne le opinioni spostando questo o quel conduttore.

Dalla Rai se ne sono andati Berlingue, Gramellini e Fazio, tre nomi di peso di quella che un tempo era definita Telekabul: cosa resta di quella Rai?

Quella che è stata definita Telekbul non esisteva già più, visto che quello era un nome giornalistico che designava un’idea forte di fare televisione che era quella immaginata da Angelo Guglielmi. Questa idea teneva insieme un modo di fare Tv postmoderno all’interno della Rai, era insomma una sorta di reinvenzione del servizio pubblico che Guglielmi definiva Tv della realtà o “verista”. Di quei tempi è rimasta una serie di format tramandati nel tempo, con un’audience nettamente di sinistra e di centrosinistra. Ora bisogna capire come reagirà il pubblico rispetto all’offerta televisiva di Rai3.

In sostanza bisogna capire se i fedelissimi di Berlinguer la seguiranno anche nella Tv dell’arcinemico Berlusconi: possiamo fare previsioni in questo senso?

Di certo viene a mancare una certa offerta informativa e quindi viene da pensare che ci sarà una certa fuoriuscita da parte del pubblico che culturalmente e storicamente si riconosce in Rai3. Dubito che questo possa accadere a favore di Rete4, dove peraltro c’è un talk, quello di Nicola Porro, che visto anche da settori di sinistra. Ma quella rete è quello che era l’alter ego di Rai3 ma rispetto all’universo culturale della destra, anche con una certa connotazione popolare, e tale resterà. Gli indirizzi di Piersilvio Berlusconi sono altri: vuol fare di Rete 4 una specie di rete informativa del gruppo Mediaset. Vedremo se ci riuscirà.

E il pubblico fedele a Rai 3 dove si sposterà?

È verosimile che continui lo spostamento di audience a favore di La7, che ha una fortissima connotazione in termini giornalistici e a cui il pubblico progressista guarda con favore. Penso ad esempio a Gramellini, in arrivo proprio da Rai3. In questo caso continuerebbe una tendenza in essere da tempo che vede un trasferimento di pubblico da Rai3 verso La7. Basti pensare a chi segue Lilli Gruber.

Pensa sia fattibile la trasformazione della Rai sul modello Bbc, privatizzando una parte di essa?

Questa idea della BBC come modello va un po’ rivista, perché il condizionamento della politica su di essa è in aumento ormai da tempo, da Tony Blair in poi. E i due modelli non sono comparabili, visto che la BBC è un medium globale. Non è mai accaduto e non può mai accadere che la Rai si trasformi nella BBC perché il ruolo dei partiti in Rai è ancora molto rilevante, così come è ancora centrale quello del governo.

C’era però anche chi diceva «fuori i partiti dalla Rai». Cosa è cambiato da allora?

Quando le forze populiste sono andate al governo abbiamo visto addirittura un aumento della presa del governo sulla Rai. È difficile quindi che cambi il paradigma esistente ma ci sono dei dati di fatto, cioè la flessione degli indici di ascolto che ha a che fare con la trasformazione della dieta mediale degli italiani ma che nel caso specifico della Ria ha anche a che fare con la difficoltà delle forze politiche a ripensare una piattaforma mediale legata a doppio filo con loro in un mondo profondamente trasformato. Il cambio di paradigma richiederebbe scelte drastiche, come la privatizzazione di una o più reti, che non potrà mai avvenire a meno di una crisi fiscale drammatica, che al momento non c’è.