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Il processo ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani sospettati di aver partecipato all’omicidio di Giulio Regeni e ai successivi depistaggi è stato un triste spettacolo. Una messa in scena che si è conclusa come altrimenti non poteva: il rinvio a giudizio disposto dal gup lo scorso maggio è stato infatti annullato perché nessuno degli imputati ha ricevuto gli atti che li chiamano in causa, nessuna residenza, nessun domicilio, tutti irreperibili. E il nostro ordinamento (come quello di qualsiasi Stato di diritto) impedisce di giudicare qualcuno che non sia a conoscenza delle sue accuse. Non è un cavillo, un espediente causidico, è la legge che tutela l’imputato e il diritto alla difesa. Questo vale per tutti i cittadini, anche per gli scagnozzi dell’intelligence del Cairo. Ma davvero la procura era convinta che «la copertura mediatica capillare e straordinaria» del caso Regeni equivalga a una notifica giudiziaria come ha affermato il giudice per l’udienza preliminare, Pierluigi Balestrieri? Si fatica a credere che dei magistrati esperti e competenti possano inciampare in un simile errore e lanciarsi in un’azione così temeraria. Forse gli aspetti simbolici ed emotivi della vicenda hanno prevalso su quelli giuridici annebbiando la mente di chi invece doveva agire con criteri razionali. Si può anche comprendere: la brutalità dell’omicidio, l’arroganza del Cairo, gli insabbiamenti, tutti elementi che gridano suscitano rabbia e dolore. Ma purtroppo -o per fortuna- un processo penale non è la lotta del bene contro il male. Ora è tutto da rifare, il giudice dovrà fissare una nuova udienza e mettere in campo nuovi elementi ma l’esito sarà lo stesso: i quattro non verranno mai rintracciati, per definizione. Sono degli agenti segreti, abituati ad agire fuori dalla legge, nella più totale impunità, all’interno della zona grigia da cui il regime di al Sisi alimenta il dispositivo della repressione. Rimane la domanda più angosciante: verrà mai fatta luce sull’omicido del ricercatore italiano, gli sarà mai resa giustizia? I nostri esponenti politici possono anche lanciare anatemi e tuonare saette nei confronti del Cairo, e il nostro governo costituirsi parte civile in un processo farlocco, ma la sostanza è che l’Italia non consumerà mai uno strappo con l’Egitto (di cui siamo il secondo partner commerciale), dall’Eni a Finmeccanica gli interessi contano più delle belle parole.