«Cosa gli ho fatto di male? Perché si ostinano a prendersela con me?». Beniamino Zuncheddu, rimasto ingiustamente in carcere per 33 anni per la strage di Sinnai (Cagliari), non ha altre parole per commentare le motivazioni con le quali, dopo tre decenni, i giudici del processo di revisione celebrato davanti Corte d’Appello di Roma lo hanno assolto. Parole, quelle scritte dai magistrati, con le quali, di fatto, Zuncheddu non viene riabilitato, rimanendo invischiato nel dubbio, perché, dicono i giudici, il processo di revisione «non ha condotto alla dimostrazione della indiscutibile certa ed estraneità di Zuncheddu Beniamino all’eccidio», ma ha «semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza».

I giudici cestinano le ricostruzioni alternative fornite dall’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu, che collegava l’eccidio al sequestro di Giovanni Murgia - definite «illazioni» - e si concentra sulla prova nuova, acquisita nel 2020, ovvero l’intercettazione nella quale si sente dire al sopravvissuto Luigi Pinna - che aveva riconosciuto Zuncheddu quale killer - “hanno capito tutto, hanno capito la verità, hanno capito che Mario (Udu, poliziotto che condusse le indagini, ndr) mi ha fatto vedere la foto di Beniamino prima”. Pinna aveva pronunciato quelle parole in auto con la moglie, dopo essere stato convocato dalla procura di Cagliari, che aveva nel frattempo aperto un fascicolo a carico di ignoti, per trovare gli altri eventuali autori del delitto. Un’iscrizione «inconsueta», secondo la Corte, nonostante l’ipotesi di più colpevoli sia stata dagli stessi giudici del processo di revisione ritenuta certa.

Tale passaggio serve per muovere, in realtà, una critica: «È evidente che senza tale iscrizione non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico dei sopravvissuti e di alcuni altri soggetti scelti con criterio rimasto in verità non molto chiaro, ma verosimilmente teso alla verifica di quella che era una semplice ipotesi, e cioè che il teste oculare del processo del 1991, vale a dire Pinna Luigi, non fosse realmente in grado di indicare le fattezze dell’aggressore e ciò poté fare solo perché gli era stata già mostrata, in violazione di legge, la fotografia del presunto responsabile, individuato nell’allora giovane pastore Zuncheddu Beniamino». Insomma, un’indagine a carattere “esplorativo”, scrivono i giudici, «nella speranza di riuscire ad ottenere le prove nuove necessarie per presentare un’istanza di revisione ai fini della risoluzione del giudicato. Quindi, in sintesi, lo strumento delle intercettazioni telefoniche ed ambientali - spesso oggetto di critiche perché costoso ed invasivo e, secondo qualche opinione, da limitare a pochissimi casi e da effettuare solo nei confronti di soggetti gravemente indiziati - è stato utilizzato per ricercare una prova nuova tesa a corroborare quello che sin dall’epoca dei fatti era rimasto nulla più che un mero sospetto d’inquinamento probatorio».

Un appunto strano, a dire il vero, dal momento che c’erano, in realtà, in gioco due questioni: la possibilità di altri killer a piede libero e la possibilità di aver commesso un enorme errore giudiziario, che sarebbe stato doveroso sanare. E mettere sotto ascolto l’unico superstite e i suoi parenti, in questo, caso, era la cosa più normale da fare. «Si è trattato di un’attività d’indagine più che lecita - commenta al Dubbio Trogu -. Chi vuoi andare ad ascoltare se non i testimoni? Non a caso si sono rivelati effettivamente quelli a conoscenza delle cose, tant’è che grazie a quelle intercettazioni Zuncheddu è stato assolto».

Grazie a quegli ascolti è emerso un assunto, che la Corte dice «dimostrato», ovvero che «l’Uda imbeccò il Pinna». Non si sa se l’informazione fosse errata, ma comunque la stessa, «se non suffragata dalla deposizione dell’unico testimone oculare presente ai fatti, non avrebbe potuto condurre ad una condanna, perché il processo avrebbe attinto ad un compendio probatorio a carattere meramente indiziario». Insomma, l’unica cosa che poteva far condannare Zuncheddu era quella testimonianza, nella quale Pinna affermava di aver visto il pastore sparargli, ma quel riconoscimento non fu genuino.

A pagina 31 sono i giudici romani ad affermare che «la modalità dell’azione omicidiaria esclude che la stessa sia stata portata a termine da un solo individuo», dunque rendendo tutt’altro che strana la scelta della procura di Cagliari di aprire un nuovo fascicolo. Scelta grazie alla quale un uomo che non avrebbe mai dovuto essere condannato oggi è libero. Ma sul procedimento, scrivono i giudici, avrebbe influito anche il «pesante condizionamento» della stampa, «a causa del forte clamore mediatico con la conseguente impossibilità di raccogliere testimonianze “a sorpresa”, che di norma sono più proficue perché mostrano la reale consistenza dei ricordi del dichiarante, si dirà più avanti». La stampa, spiega però Trogu, ha diffuso «soltanto atti pubblici, atti di prova assunti nel dibattimento, quindi nulla che non potesse essere pubblicato». E dato che il procedimento era a porte aperte non era possibile pretendere il silenzio.

Per la Corte d’Appello di Roma, Zuncheddu fu condannato non solo per la testimonianza di Pinna, ma anche perché fornì un alibi falso. Circostanza, quest’ultima, che però non troverebbe riscontro nelle sentenze, sottolinea Trogu. «Non è scritto da nessuna parte - spiega - e comunque ciò, senza una prova diretta, non avrebbe alcun valore». Ma è questo passaggio quello che potrebbe mettere a rischio il risarcimento che lo Stato dovrebbe versare a Zuncheddu dopo 33 anni di ingiusta detenzione. «L’unica condizione che pregiudica il risarcimento - sottolinea il legale - è che l’imputato abbia, con colpa grave o dolo, contribuito alla condanna stessa. Ma l’unica prova a base della condanna era la testimonianza di Pinna. In un mondo ideale dove tutti applicano le leggi il problema non dovrebbe porsi. Usare la questione dell’alibi come strumento per negare il risarcimento significherebbe forzare ogni norma».

Le prove a carico di Zuncheddu, oggi, non esistono più. «Il percorso corretto, in un ragionamento probatorio - conclude Trogu -, è confrontarsi con la prova a carico e vedere se sussiste ancora. Qui si è fatto l’inverso: hanno preso le prove dell’innocenza sottoponendole ad uno stress test, per verificarne la solidità. Ma non funziona così: bisogna chiedersi se ci sono le prove per condannarla una persona, non per considerarla innocente. Altrimenti saremmo tutti mezzi colpevoli. In ogni caso, la formula usata (articolo 530 comma 2) equivale ad un’assoluzione piena. Se io oggi facessi ricorso per Cassazione lamentando questa motivazione, mi direbbero che è inammissibile, perché è una sentenza ampiamente liberatoria».