Se la parola “fine pena mai” ha un senso, lo si è visto sulle facce, apparentemente impassibili, di Rosa Bazzi e Olindo Romano mentre la corte d’appello di Brescia confermava la loro condanna all’ergastolo, dichiarando inammissibili le richieste di revisione del processo. Ergastolo era e ergastolo rimane. Certo, c’è ancora la possibilità di un ultimo ricorso in Cassazione. Ma gli avvocati sanno bene, e lo sa altrettanto bene il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser che, con un’iniziativa che gli è persino costata la censura della sezione disciplinare del Csm, aveva a sua volta presentato un ricorso con un corposo documento basato sul convincimento di un clamoroso errore giudiziario, che c’è poca speranza. Perché non si potrà più entrare nel merito delle tante contraddizioni di questo processo.

Dire che quello che ha condannato Rosa e Olindo all’ergastolo è stato un processo indiziario è dire poco. Ma ci sono già stati 26 giudici, cui si aggiungono quelli della corte d’appello di Brescia che hanno messo ieri la parola fine alla vicenda, che non hanno avuto dubbi. I due imputati sono colpevoli. Eppure, eppure, eppure. In tanti, avvocati, giornalisti, scrittori, si sono spesi in questi anni a mostrare l’assurdità di prove e testimonianze traballanti. Fino a convincere dell’innocenza dei due condannati un magistrato come Tarfusser, che non è proprio un pivellino alle prime armi e che ha sempre svolto il ruolo di procuratore, di uno che solitamente sta dalla parte dell’accusa.

I punti centrali dell’accusa e delle condanne sono sempre tre e rimangono sempre i soliti tre. La strage di Erba risale a diciotto anni fa. Un fatto tremendo, in cui furono uccisi a colpi di spranga e coltello Raffaella Castagna, il figlio di soli due anni Yussef Marzouk, la madre di Raffaella, Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini, la sera dell’11 dicembre 2006. Il primo sospettato, va da sé, è Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Yussef, che è extracomunitario e ha anche qualche precedente per spaccio. Ma lui ha un alibi di ferro, è in Tunisia. Così gli investigatori ripiegano sui vicini di casa, Rosa e Olindo. Il movente? Nulla più che beghe di ballatoio, qualche scaramuccia, piccole discussioni. I due coniugi sarebbero stati infastiditi dai rumori dei vicini. È quanto basta per compiere una strage, strangolare un bambino e soprattutto con queste modalità? Ma la macchina è in moto e non si fermerà più.

Fondamentale sarà la testimonianza di Mario Frigerio, marito di una delle vittime, Valeria Cherubini, trovato sulle scale con la gola squarciata ma sopravvissuto. Verrà interrogato subito in ospedale dal pubblico ministero a fornirà una descrizione chiarissima del suo aggressore. Un uomo scuro di carnagione e di capelli. Ma soprattutto afferma che si trattava di “uno sconosciuto”. Dice però di essere in grado di riconoscerlo in un eventuale identikit. Come questo sconosciuto descritto come un nordafricano possa poi assumere le sembianze di Olindo Romano è incomprensibile.

Fatto sta che da quella prima deposizione a quelle successive, il signor Frigerio avrà diversi incontri con un luogotenente dei carabinieri che lo interrogherà per ben nove volte. Ma la “prova regina”, anche perché nel frattempo il signor Frigerio è deceduto, quindi quegli interrogatori sono ormai cristallizzati, è considerata un’altra. La famosa macchia di sangue, appartenente alla vittima Valeria Cherubini, trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano. E qui viene però in soccorso della difesa la scienza, con una consulenza biologico-genetica che denuncia addirittura una “accertata inconciliabilità” tra la traccia rilevata e quella repertata. Questa prova è inesistente.

E, a proposito di sangue, è mai possibile che dopo una strage con sgozzamenti e assalti alle giugulari, i due assassini siano rimasti puliti e nessuna traccia sia mai stata trovata sui loro abiti? Un’altra incongruenza. E si arriva così alle confessioni dei due indagati. È stato questo un punto delicatissimo, perché si deve tener conto delle personalità di Rosa e Olindo, del ruolo di tanti tecnici che si sono alternati al loro fianco e degli interrogatori preparati. Sempre tenendo conto del fatto che mai la confessione può essere considerata una prova.

Il processo di revisione è stato molto combattuto. Gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Patrizia Morello e il professor Nico D’Ascola, difensori di Rosa e Olindo, e lo stesso Azouz Marzouk, che nella strage ha perso moglie e figlio ma che ha sempre creduto all’innocenza dei due ergastolani, hanno trovato a fronteggiarli l’avvocato dello Stato e il procuratore generale, e le parti civili, che hanno combattuto come un sol uomo. Implacabili e sicuri del risultato. Tanto che il pg Guido Rispoli ha persino rinunciato alla replica finale. Hanno avuto ragione, per ora. Ma il processo per la strage di Erba è destinato a passare alla storia. E non è detto che sarà ricordato come un fatto tragico concluso con il trionfo della giustizia.