«Un agente che mi interrogava mi ha detto che quello nella foto numero 8 era il capitano della barca e di firmare accanto all’immagine. Ed io l’ho fatto». A dirlo, in aula, a Crotone è stato Faizi Hasib, 33enne ex agente di Polizia in Afghanistan, tra i superstiti del naufragio del caicco carico di migranti che la notte del 26 febbraio 2023 si è schiantato contro una secca davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Su quella nave, denominata “Summer Love”, erano ammassate circa 140 persone partite da Cesme, in Turchia, che hanno poi incontrato le onde alte e spietate dello Jonio, che ha strappato la vita ad almeno 100 di loro. Gente alla ricerca di vita, un futuro migliore, sfuggita ai talebani o al terremoto in Turchia e Siria, alle guerre, alla fame, in viaggi iniziati due anni fa e costati fino a 8500 euro.

Hasib ha pronunciato queste parole mercoledì, in videocollegamento da Amburgo, nel corso del processo ai tre presunti scafisti, Sami Fuat, di 50 anni, turco, Khalid Arslan e Ishaq Hassnan, di 25 e 22 anni, entrambi pakistani, a processo per naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza di altro reato. Dichiarazioni, le sue, che potrebbero ora mettere in dubbio il riconoscimento delle persone accusate di essere stati gli scafisti del naufragio.

Il presidente del Tribunale, Edoardo D'Ambrosio, e il pubblico ministero, Pasquale Festa, hanno chiesto diverse volte al testimone di spiegare meglio le proprie parole. Secondo quanto riferito da Hasib, la foto di Sami Fuat come «capitano della nave» gli era stata indicata dal poliziotto che lo stava interrogando: «Mi ha detto di firmare accanto alla foto di Suat, aggiungendo, comunque, che non ero obbligato a farlo». Sarà necessario, comunque, verificare l’efficacia della traduzione, dal momento che più volte il presidente ha richiamato il traduttore, le cui parole sono apparse, in più di un’occasione, telegrafiche rispetto alla lunghezza delle frasi pronunciate dal testimone. La traduzione, inoltre, è stata in più di un caso contestata da uno degli imputati, Khalid Arslan, che avendo appreso l’italiano in carcere ha protestato più volte, soprattutto per quanto riguarda l’accusa mossa ai pakistani di aver aiutato i timonieri del caicco. «Sta traducendo male, non lo vogliamo come interprete», ha gridato l’imputato dalla cella, ingaggiando una discussione con l’interprete. Una situazione stigmatizzata dal presidente, che ha invitato gli imputati a rivolgersi ai propri difensori e a non intervenire, pena l’allontanamento dall’aula. A protestare anche i difensori Salvatore Perri e Teresa Paladini, che hanno eccepito l’inutilizzabilità delle immagini, richiesta respinta dal Tribunale.

D’Ambrosio aveva anche proposto di far riconoscere gli imputati in maniera “informale”, facendoli inquadrare dalle telecamere, richiesta alla quale gli imputati si sono però opposti. Solo Arslan si era detto disponibile, a patto, però, di affiancarlo ad altre tre persone scelte a caso.

Intanto è attesa per metà maggio la chiusura delle indagini sulla catena dei soccorsi, data l’imminenza della scadenza dei termini per l’emissione dell’avviso di conclusione indagini. L’indagine conta al momento sei indagati, tre dei quali sono stati omissati. Gli altri sono il tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, il sottufficiale Antonino Lopresti, dello stesso Roan, operatore di turno la notte in cui si verificò il naufragio, e il colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Stando alla ricostruzione della procura, ci sarebbero stati inspiegabili ritardi, nonostante il target – la nave poi colata a picco con il suo carico di anime – fosse stato intercettato dai radar in tempo utile per evitare la tragedia. Tanto che almeno cinque ore prima dello schianto che ha provocato la morte di un centinaio di persone la Guardia Costiera classificò la presenza di quella nave nelle acque calabresi come «evento migratorio».

Una tragedia evitabile, con ogni probabilità, dal momento che Frontex, già alle 21.26 del 25 febbraio, aveva appuntato la presenza di una «possibile nave di migranti» con il portello anteriore aperto, intercettata mentre effettuava una chiamata satellitare verso la Turchia e con una significativa risposta termica. Il naufragio è avvenuto alle 4 di domenica 26 febbraio, ma la Guardia Costiera ha raccolto i superstiti in mare, attraverso un’imbarcazione, soltanto alle 6.50, nonostante il porto si trovi a poche miglia di distanza, a soli 10 minuti di navigazione. Un dato che conferma il racconto dei sopravvissuti - rimasti in mare circa tre ore prima di essere salvati - e riportato nella relazione della Guardia Costiera, da incrociare con un’altra circostanza: le pattuglie via terra sono arrivate in spiaggia alle 5.35, un’ora e 35 minuti dopo il naufragio.