Se è vero, e forse lo è, che i test psico-attitudinali per i magistrati, specie se non più ripetuti dopo il concorso, servono a poco, perché tanta agitazione tra le toghe? Fino alle minacce di sciopero e di ricorsi alla Corte Costituzionale? Nell'uovo di pasqua, tra articoli e interviste, sono emersi quattro tra i più scenografici e significativi ex pubblici ministeri italiani, a dire la loro. Con vari toni, tra l’ironico, il sarcastico e l’arrabbiato, hanno bocciato la proposta del Parlamento e del ministro Nordio. Alcuni inchinati al sacro vangelo della società di psicanalisi, che vent’anni fa avrebbe decretato come la personalità del magistrato sia così complessa da non poter essere ridotta a una gara a quiz. Come se noi altri poveri mortali senza toga fossimo tutti dei sempliciotti dalle menti elementari, gente da quiz. Qualcuno ha citato la poesia di Trilussa sul cane- poliziotto per evocare il desiderio ossessivo del governo di ridurre il giudice a un fedele quadrupede a lui sottoposto. Qualcun altro si chiede se il ministro non voglia alludere alla pazzia dei magistrati.

Piercamillo Davigo, che di medaglie sul petto ne ha parecchie, dalla procura di Milano alla Cassazione fino al Csm, continua fischiettando a fingere di ignorare quel che tutti sanno, che è già un condannato, sia pur se non definitivo. Uno di quelli per cui lui, nel caso al suo posto ci fosse stato un politico, avrebbe chiesto a gran voce il silenzio. E insieme a lui il direttore Travaglio che lo ospita ancora una volta sul suo quotidiano. Il dottor Davigo svolge sempre il ruolo di tecnico, il che potrebbe essere normale per un ex magistrato. Quello che è più difficile da digerire è che da quel seggio impartisca continue lezioni, anche a chi, come il suo ex collega e oggi ministro Carlo Nordio, si suppone ne sappia almeno quanto lui. Invece no. Così apprendiamo che l’ex pm del pool di Milano degli anni novanta conosce a memoria gli articoli che vanno dal 101 al 110 della Costituzione, mentre il ministro guardasigilli li ignora. Tanto da avere in mente, con la somministrazione dei test agli esaminandi del concorso, «un magistrato che ubbidisca, in spregio alla Costituzione». In definitiva «obbediente… come un cane». Come quello di Trilussa, così subalterno da far carriera e diventare, da poliziotto, questore. Con la stessa logica, potrebbe obiettare il ministro, si potrebbe addirittura abolire il concorso per entrare in magistratura. E qualunque concorso pubblico.

Ma sono tre ex procuratori capo, Giancarlo Caselli, Armando Spataro ed Edmondo Bruti Liberati, a evocare la questione psicanalitica. Il che fa davvero venir voglia, come alcuni hanno già fatto, di richiamare tra noi Silvio Berlusconi e i suoi continui riferimenti all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Sarà anche vero, e non ne dubitiamo, che nel 2004 «moltissimi autorevoli specialisti italiani» della società psicanalitica avessero escluso di poter valutare con un test «ideali, motivazioni, passioni e interessi» che inducono un uomo o una donna a indossare la toga di magistrato. Ma siamo certi che gli stessi analisti avrebbe risposto allo stesso modo per qualunque altra categoria di persone. Semplicemente perché è vero che, se si affronta la questione dei test dal punto di vista dell’impatto psicologico sulla complessità della personalità umana, questo tipo di esame andrebbe abolito per tutti, a partire dall’esame per la patente di guida. E allora, compagni non facciamo i furbi, avrebbe detto Mario Capanna in un’assemblea del sessantotto.

Quindi cerchiamo di usare argomentazioni un po’ più attinenti. Lasciamo perdere l’arguzia del dottor Caselli che, pure lui sul Fatto quotidiano, si augura che nessun magistrato sottoposto al test faccia smorfie e faccine come la presidente del consiglio. E abbandoniamo anche il ritornello che riconduce al «disegno di Gelli», come se una cosa giusta non potesse essere detta da una persona “sbagliata”, cui si riferisce, purtroppo per la sua intelligenza, persino Armando Spataro. Il quale, solo alla fine dell’intervista su Repubblica in cui la giornalista Liana Milella lo inziga sul presunto «fil noir» che andrebbe da Gelli a Berlusconi fino a Meloni- Nordio, sputa il rospo. La vera ossessione del corporativismo delle toghe. Per cui qualunque riforma, di qualunque tipo, proposta da chiunque, «talvolta di variegato colore», è sempre e comunque un attentato. La cui conclusione consisterebbe nel fatto che «la magistratura deve essere sottoposta agli atri due poteri».

Non c’è niente da fare, e non c’è intelligenza che tenga. Si arriva sempre lì. Lo dimostra anche l’intervista di Bruti Liberati al Corriere. L’ex procuratore di Milano dice cose sensate, come quando risponde al dottor Gratteri ricordando che «l’unico test per i politici è il voto degli elettori». E giustamente ricorda che per quel che riguarda i magistrati «l’equilibrio lo si valuta solo nel corso dell’esercizio della funzione». Ci si aspetterebbe quindi da parte sua semmai una correzione della proposta sui test in questa direzione. Dimostrerebbe di essere un vero riformatore, più di Nordio. Invece no. Perché in definitiva anche chi potrebbe rappresentare la parte più sensata e meno corporativa e ideologica della magistratura, non sa resistere alla chiusura conservatrice nei confronti delle riforme. «Il test? È un attacco delegittimante alla magistratura: come se fosse piena di matti», dice Bruti Liberati. Così chiudendo la porta anche a ogni possibilità di dialogo. Peccato.