Pietro Cavallotti ha la tempra del maestro zen. Ha 29 anni e porta una croce: la sua famiglia è stata accusata di mafia e si è vista portare via tutto. Le imprese e persino le abitazioni. Pietro ha iniziato, quando era ancora ragazzino, a studiare. Diritto, ovviamente. Ha studiato tanto che oggi forse si fa prima ad andare da lui che all’università, se si vuol capire come funzionano le misure di prevenzione antimafia. Lui, figlio di imprenditori palermitani, aveva una motivazione straordinaria: ottenere giustizia per sé, suoi fratelli, suo padre. L’ha avuta. Con otto anni di ritardo, ma l’ha avuta. Certo la giustizia può assumere fattezze paradossali. E sono quelle disvelatesi allo sguardo fermo e tenace di Pietro: l’altro ieri la sezione “Misure di prevenzione” di Palermo ha accolto il ricorso di Pietro Cavallotti e dei suoi fratelli e ha così revocato il sequestro di parte delle aziende di famiglia. Dopo otto anni di attesa e con un dettaglio che rende tutto surreale: oggi le aziende sono ridotte in polvere. Euroimpianti plus, la più importante delle ditte restituite due giorni fa dai giudici agli imprenditori originari, ora ha sul groppone qualcosa come 6 milioni di euro di debiti. Accumulati uno ad uno dall’amministratore giudiziario.

Una beffa, per usare una definizione ipocrita. Maturata negli anni che temporalmente, e non solo, coincidono con quelli in cui a presiedere la sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo è stata Silvana Saguto. La magistrata oggi sotto processo a Caltanissetta per corruzione, abuso d’ufficio e associazione a delinquere, reati tutti connessi proprio al modo in cui gestiva i sequestri e l’assegnazione degli incarichi agli amministratori giudiziari.

QUEL PG CHE DISSE “QUESTI SONO VITTIME”

Se si vuole capire la follia, l’enormità del caso Cavallotti, si deve tornare al processo di prevenzione celebrato negli anni scorsi a carico di altre aziende di famiglia, appartenute a Gaetano Cavallotti, padre di Pietro, e ai suoi fratelli. «Siamo nel 2013, al secondo grado di giudizio del cosiddetto processo di prevenzione», ricorda il 29enne di Belmonte — e servirebbe un intero numero di giornale per illuminare un profano sugli esoterismi del doppio binario, che vede appunto abbinato al processo penale vero e proprio un altro procedimento, di “prevenzione” appunto, privo di garanzie e spesso destinato a protrarsi nonostante l’assoluzione dalle accuse di mafia. «In udienza fu il pg Florestano Cristodaro a dire “dobbiamo restituire l’azienda e tutti gli altri beni alla famiglia Cavallotti, queste persone sono vittime dei mafiosi, non colluse”. Ancora: “Dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo, quando lo Stato sbaglia”.

Ci commuovemmo tutti fino alle lacrime. Ma non servì. La Corte d’appello confermò la confisca, divenuta definitiva nel 2016». Vittime, ecco: e da dove nasce la ferocia dello Stato nei confronti di questa famiglia palermitana di imprenditori, attiva nel settore del gas? Dal combinato disposto fra indizi inconsistenti e una gestione delle misure di prevenzione oggi messa sotto accusa dai giudici di Caltanissetta. Il padre di Pietro e i suoi fratelli erano stati addirittura arrestati, nel 1998. Accusa: concorso esterno in associazione mafiosa. Alla fine saranno assolti. La sentenza d’appello bis, del 2010, stabilisce che erano appunto vittime e non collusi con la mafia. Ma già l’anno dopo l’arresto, nel 1999, la competente sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo aveva avviato il processo di prevenzione e sequestrato le aziende della prima generazione dei Cavallotti. Come avvenuto ad altri imprenditori siciliani martorizzati dalla giustizia, l’assoluzione nel processo vero e proprio, quello penale, non basta a far cadere le restrizioni sui beni. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dal concorso esterno, si conclude dopo qualcosa come 12 anni il primo grado del procedimento parallelo: il sequestro è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. In particolare la “corte Saguto” cita la corrispondenza di due superboss: Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Il primo fa riferimento al pizzo da imporre per i lavori di metanizzazione in due comuni del Palermitano, Agira e Centuripe. Pizzo imposto ai Cavallotti, che quindi sono vittime. E invece, per Saguto e il suo collegio ( ora interamente sotto processo a Caltanissetta), si tratterebbe di un indizio di pericolosità. Brusca scrive in un pizzino che si deve affrontare la “messa a posto” dell’impresa Cavallotti, impegnata a portare il metano a Monreale. Nel gergo criminale “mettere a posto” significa mettere in regola con l’esazione del pizzo. Saguto lo ignora. Interpreta la frase come prova non delle vessazioni mafiose subite dai Cavallotti, ma di una premura paterna del capomafia. E appunto, a ottobre 2011 emette il decreto di confisca di primo grado nei confronti del padre di Pietro.

L’AMMINISTRATORE CHE PAGA SOLO SE STESSO

Alla vigilia di Natale dello stesso anno, sempre la ex presidente delle “Misure di prevenzione” di Palermo fa scattare altre restrizioni, stavolta nei confronti delle aziende dei figli, inizialmente dei fratelli di Pietro. Nomina un amministratore giudiziario, Andrea Aiello. Il quale adotta un meccanismo replicato varie volte da professionisti incaricati da Saguto: individua altre aziende secondo lui riconducibili ai pericolosissimi Cavallotti, quelle dei cugini di Pietro. Sono ditte di costruzioni, anch’esse restituite, due giorni fa, alla famiglia di imprenditori da un Tribunale che intanto ha cambiato presidente. Ma ciò che conta è che Aiello, nel 2014, ottiene l’amministrazione giudiziaria anche di questi altri asset. Continua così ad attribuirsi compensi straordinari, grazie a una strategia semplicissima: non paga i fornitori. Ecco perché la famiglia Cavallotti, strenuamente difesa in questi anni dal Partito radicale, ha riavuto una Eurompianti gravata da 6 milioni di debiti. Giustizia, sì. Ma col retrogusto marcio della beffa.