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PALAZZO DI GIUSTIZIA PALAZZACCIO PIAZZA CAVOUR CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PALAZZACCIO
Nel presentare il ddl “Sicurezza”, molti politici si erano intestati il merito di alcune novelle subito iscritte, senza ragione, nel novero delle conquiste memorabili per la civiltà del diritto.
Grande enfasi, in particolare, era stata riservata all'aumento del termine per impugnare i provvedimenti di prevenzione, portato da dieci a trenta giorni, a fronte di procedimenti utilizzati da elevatissima complessità tecnica ( non solo di natura giuridica, ma anche contabile, fiscale, societaria, commerciale) e di atti la cui stesura necessita di competenze multidisciplinari. In realtà, un termine di almeno 30 giorni per impugnare un decreto che applica una misura di prevenzione, sia essa personale, patrimoniale o mista, è solo l'esplicazione minima di un diritto di difesa effettivo e non meramente nominale. Una goccia nel mare, quindi, lungo un percorso di “civilizzazione” della prevenzione, ancora molto di là da venire.
Nel frattempo, il ddl è diventato decreto legge “Sicurezza”, la cui conversione è stata impostata al Parlamento con il ricorso al voto di fiducia, e quella piccola conquista è diventata una pericolosissima tagliola, di quelle ben nascoste per essere più insidiose e fare più danni.
Se infatti l'originaria intenzione del legislatore era dettare un regime più favorevole a tutte le impugnazioni di prevenzione, nei dossier di studio sul Dl si illustrava la imminente riforma come destinata a incidere sui soli provvedimenti di prevenzione personale e, dunque, non anche su quelli patrimoniali. Una disparità di trattamento irragionevole, ma per fortuna inattuabile, dal momento che il Testo unico delle leggi Antimafia non prevede un termine autonomo per impugnare i provvedimenti di confisca, ancorandolo invece a quello previsto per le misure personali. La modifica del secondo, quindi, avrebbe automaticamente variato anche il primo. E, dunque, quei dossier rappresentano la inadeguatezza di fondo che caratterizza l'approntamento del testo normativo, che lascia trasparire la scarsa conoscenza della materia incisa dalla novella legislativa.
Nel Dl, la nuova disposizione in tema di impugnazioni dei decreti emessi nell’ambito di procedimenti di prevenzione non rispetta né la ratio del ddl – che era quella di ampliare in modo uniforme il termine di impugnazione senza alcuna distinzione – né l’interpretazione datane nel dossier, che era quella di una illogica e irragionevole distinzione tra misure personali e patrimoniali. Superando ogni limite di buon senso, di buona tecnica legislativa e di logica sistematica, il governo ha modificato il solo comma 2 dell’articolo 10 del Testo unico, senza incidere sul successivo comma 3. In pratica: il termine per proporre appello è ora di trenta giorni; il termine per proporre ricorso per Cassazione è rimasto di dieci! Poiché una tale distinzione presenta i tratti di una irragionevolezza
imbarazzante, si spera che essa non sia il frutto di una deliberata scelta legislativa.
Estendere i termini per l’appello e lasciare sincopati quelli del ricorso per Cassazione, l’atto generalmente più complesso dell’intero procedimento, sarebbe infatti un autentico controsenso. E allora si è trattato di una svista. Un errore del governo, passato inosservato a tutta la catena di commissioni, uffici studi, consulenti che hanno lavorato al testo. Ignorato dai due rami del Parlamento, nella corsa alla approvazione di una legge che, con l’apposizione della fiducia, è diventato l’ennesimo vessillo della “politica della sicurezza”. Da ratificare a occhi chiusi, per non apparire deboli, ma col rischio concreto di essere superficiali e devastanti nel disciplinare le vite degli altri. Che è proprio ciò che è accaduto.
Forse non è un caso che quest’esempio di schizofrenia legislativa si sia manifestato nella materia della prevenzione, che ancora una volta invera le dure parole di Tullio Padovani, secondo il quale essa è “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”.
Un sistema vocato all’eccezione e, in questo caso, persino all’eccezione dell’eccezione, in una progressione o, meglio, in una regressione inarrestabile rispetto ai costituti più elementari del diritto penale, del giusto processo, dei principi generali dell’ordinamento.
Ma, al di là delle riflessioni di ordine generale, questa riforma “a metà” spiegherà effetti drammatici di ordine pratico e quotidiano. Un sistema così congegnato, infatti, ha già creato le condizioni – diaboliche – per indurre in errore gli operatori del diritto. Chi, dopo l’ 11 aprile 2025, ha confidato ingenuamente nel termine di 30 giorni per rivolgersi alla Cassazione è già incorso in una causa di inammissibilità.
E per il futuro, l'anomala e ingiustificabile compressione dei termini per il solo ricorso in Cassazione, già limitato alla sola violazione di legge, comporterà le inevitabili questioni di legittimità costituzionale che, fin troppo facile prevedere, verranno accolte dalla Consulta. E tutto ciò a causa della insipienza di un legislatore che, ancora una volta, è l'immagine più drammatica di questa (in)giustizia della postmodernità.
* Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell'Ucpi