IL RETROSCENA

I Pd dovrà decidere se darsi un’identità politica chiara e, quindi un elettorato da rappresentare, o se seguire il consiglio di Bindi e “chiudere baracca”

“SCegliere o sciogliersi?', questo è il dilemma. Non dovrebbero esserci dubbi, invece ce ne sono, anche perché almeno in apparenza la scelta non si pone con tanta drasticità. Il Pd è forte, è il secondo partito, ha uno zoccolo duro che veleggia intorno al 20 per cento, punto più, punto meno. Passato lo shock della imprevista sberla inevitabilmente rispunterà la tentazione di dirsi che in fondo non è andata così male, che a fronte di partiti come i 5S, che dimezzano i consensi e possono pure cantare vittoria, non si è trattato affatto di una catastrofe, che errori di gestione ce ne sono stati, questo non lo si può negare, ma basta cambiare il timoniere per correggerli.

Sarebbe la strada peggiore e più illusoria. Sarebbe la riproposizione pavloviana della reazione abituale del Pd di fronte alle sconfitte: cambiare il segretario con le primarie e complimentarsi poi con se stessi perché il metodo, cioè le primarie stesse, sono la vera essenza del dna del Pd. Come se le modalità di elezione del segretario potessero sostituire l'assenza di una linea politica!

Almeno stando alle dichiarazioni di questi giorni, anche della vicesegretaria Debora Serracchiani o di un ministro e capobastone come Andrea Orlando, il Pd sembrerebbe oggi consapevole di dover optare per una identità politica, passo che ha sempre evitato di fare dalla nascita a oggi, dunque per ben 15 anni, essenzialmente per due motivi. Il primo è che, essendo l'orizzonte il governo e l'incasso elettorale, tenersi le mani libere, potersi orientare a destra o a sinistra a seconda delle circostanze e dell'opportunità è imprescindi-bile.

Il secondo è che il Pd è già di per sé una coalizione, che rischia di sgretolarsi ogni volta che si altera l'equilibrio non per una fase ma definitivamente. Il senso del fallimento di Renzi, il solo tra i numerosi segretari del Pd che abbia provato a connotare il partito in fondo è proprio questo.

Ma il labirinto è anche più tortuoso. Non si tratta infatti di decidere se essere in futuro un partito più di sinistra o più di centro, come sembrerebbe dal dibattito di questi giorni. Si tratta di capire che partito vuol dire essere di parte, rappresentare alcuni interessi e non tutti, pur se cercando poi da quel punto di partenza di rivolgersi all'intera società. Si tratta di accettare una realtà ferrigna che era senso comune nella prima Repubblica ma è terrificante oggi, per un ceto politico cresciuto in una realtà opposta. Il fatto che non si possa essere a favore dell'agenda Draghi e contemporaneamente del reddito di cittadinanza. La scelta dolorosa non è quella tra da chi farsli guidare o quale tonaità di colore adottare, se più vicina al rosso o al rosa. Il passaggio traumatico è decidere chi rappresentare in modo eminente e anzi, prima ancora, il fatto che non si possano rappresentare tutti.

Il senso profondo della chimera del partito a vocazione maggioritaria, ancora inseguita alla vigilia di queste elezioni, era proprio quella di un partito mai costretto a scegliere quale rappresentanza sociale fare propria, convinto di poter riposizionare la linea di confine solo sul fronte dei diritti che, per quanto estremamente incisivo anche sulla dimensione sociale, permette di evitare una scelta di rappresentanza sociale considerata, spesso anche esplicitamente, ' antica', novecentesca, paccottiglia e piombo nelle ali.

I risultati elettorali da ormai molti anni dicono che non è così. L'accusa rivolta al Pd di essere solo ' il partito delle ztl', dei quartieri ricchi, non è del tutto giustificata, essendoci chiaramente in un elettorato folto come quello del Pd comunque molto di più. Ma non è neppure ingiustificata.

La minaccia che vede Rosy Bindi è reale ma per scorgerla bisogna essere lungimiranti: non è dietro il prossimo angolo. È inevitabile che prima o poi prendano piede in modo non effimero formazioni politiche in grado di impugnare la rappresentanza di diverse aree e fasce sociali soppiantando il Pd. Però non succederà domani e per questo il pessimismo implicito nella proposta shock della Bindi è quasi certamente fondato. Parlare di ' scioglimento' significa infatti dichiarare che l'errore è nel manico e che il Pd è irriformabile. Forse il percorso congressuale la smentirà.

Ci si può sperare, per il bene dell'intero sistema politico e non solo del Pd.

Però per farlo ci vuole una dose da cavallo di ottimismo.