Dieci anni di processo. Dieci anni di attesa, di accuse, di udienze, di avvocati e faldoni. Dieci anni per arrivare a una sentenza. La prima. Solo il 18 luglio 2025 il Tribunale di Reggio Calabria (presidente Silvia Capone, a latere Carla Costantino e Marco Cerfeda) ha scritto la parola fine sul primo grado del processo “Rimborsopoli”, quello che avrebbe dovuto fare luce su anni di rendicontazioni dei partiti politici calabresi. Quello dei rimborsi “fantasiosi” e una gestione dei fondi pubblici che, secondo l’accusa, era più affine alle logiche di un banchetto privato che a un’amministrazione pubblica.

Uno dei procedimenti giudiziari più simbolici e discussi in Calabria che ha visto coinvolti volti noti della politica regionale e nazionale e si è concluso con sei condanne, 18 assoluzioni con formula piena, due prescrizioni. Sono stati ritenuti colpevoli Luigi Fedele, ex presidente del Consiglio regionale, condannato a cinque anni di reclusione; Giovanni Nucera (quattro anni), Pasquale Maria Tripodi (tre anni e sei mesi), Alfonso Dattolo condannato a quattro anni e otto mesi, Giovanni Emanuele Bilardi, senatore ed ex consigliere, quattro anni e otto mesi, e Carmelo Trapani, ex collaboratore amministrativo dei gruppi, tre anni e sei mesi. Il Collegio ha disposto per Fedele, Nucera, Dattolo, Bilardi e Trapani l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità perpetua di contrattare con la pubblica amministrazione, se non per ricevere prestazioni di servizio. Più lieve la sanzione accessoria per Tripodi con interdizione per cinque anni. Ma se il fronte delle condanne segna un punto per l’accusa, quello delle assoluzioni ne racconta uno forse più clamoroso. Il fatto non sussiste, infatti, per Giovanni Raso, Alfonsino Grillo, Antonino De Gaetano, Ferdinando Aiello, Vincenzo Ciconte, Agazio Loiero, Giuseppe Bova, Sandro Principe, Nicola Adamo, Emilio De Masi, Pietro Amato, Demetrio Battaglia, Bruno Censore, Mario Franchino, Mario Maiolo, Carlo Guccione, Antonio Scalzo e Francesco Sulla. Per molti di loro la procura aveva chiesto pene pesanti, fino a cinque anni. Ma il Tribunale ha riconosciuto che non vi fu un reato. Molti erano nomi noti della politica calabrese e nazionale. Ma al di là di questo sono i tempi a restare impressi: 10 anni solo per il primo grado. Ed è proprio il tempo a pesare di più sulle spalle degli imputati. Perché la giustizia in Italia è così: delle volte fulminea, altre volte lenta, pesante e affaticata. Ti prende quando sei in piedi e ti restituisce quando sei a pezzi. Magari assolto, ma con i capelli bianchi e la vita sospesa come una valigia non disfatta. Perché «in dieci anni la vita cambia», dice Antonino De Gaetano. E lo dice con la voce di chi l’ha vista, la vita, cambiare davvero. Di chi ha visto il padre morire nel frattempo, senza veder finire quell’odissea giudiziaria che aveva scosso e stravolto il proprio figlio di cui andava orgoglioso. Quando la parola “assolve” ha rimbombato nell’aula del tribunale di Reggio il primo pensiero di Nino è stato «a mio padre, che non è riuscito a vedere l’assoluzione», dice con quel tono che non appartiene più al politico di un tempo, ma all’uomo che oggi è diventato altro. Nel giugno del 2015, quando scoppiò l’indagine “Rimborsopoli”, aveva 38 anni ed era assessore regionale. «Dopo l’indagine ho dovuto dimettermi, non ho più fatto politica e ho dovuto reinventarmi. Non è stato facile», dice. Nel 2015 sedeva negli scranni del potere con la delega alle infrastrutture e ai trasporti, oggi è titolare di un’agenzia di formazione e consulenza. E lui, che da politico parlava di diritti, di lavoro, di dignità, si è ritrovato a chiedere il diritto a ricominciare: «Quando sei imputato la vita viene stravolta. Ero andato dal notaio e avevo aperto una Srl ma in banca non mi hanno aperto nemmeno il conto perché ero imputato. Ho dovuto chiuderla. Dai 38 ai 48 anni mi hanno bloccato la vita, non ho potuto neppure fare un concorso pubblico. Quella è l’età in cui ti stabilizzi, ti sistemi, in cui dovresti dare di più. Io ho dovuto reinventarmi. Non è stato facile ma ci sono riuscito». Lo dice con fierezza, ma senza trionfalismo.

Come chi sa cosa vuol dire farlo senza avere più nemmeno un’identità pubblica. Da assessore a imputato e da imputato a padre che cerca di reinventarsi per pagare il mutuo. Tutto mentre si difendeva «nel processo e non dal processo», sottolinea. Ma c’è un momento che di questi anni non ha mai dimenticato: gli arresti domiciliari. «Privare della libertà una persona è la cosa peggiore», dice. Poi il divieto di dimora. Lui, che la Calabria l’ha sempre percorsa da nord a sud, cacciato dalla sua terra. «Un mese fuori dalla Calabria, poi la Cassazione – ricorda- mi ha fatto tornare. E ho vissuto il processo da uomo libero». L’inchiesta, avviata nel 2013 ma relativa al triennio 2010-2012, nacque dal sospetto che i fondi destinati all’attività istituzionale dei gruppi consiliari fossero stati usati in modo del tutto personale. Le indagini furono lunghe e invasive. Telefonate, conti correnti spulciati, intercettazioni ambientali e quegli scontrini per i rimborsi tra i quali risultavano detersivi, “gratta e vinci”, cartelle esattoriali, tablet e viaggi all’estero. Le accuse erano peculato e falso ideologico.

Nel 2015 vennero eseguite le misure cautelari. Nel febbraio del 2016 iniziò il processo. Dopo 10 anni la prima sentenza con la pioggia di assoluzioni. «Dopo dieci anni non si può parlare di giustizia ma solo soddisfazione. In uno stato civile – rimarca De Gaetano - un processo può durare due o tre anni. Da uomo di sinistra, era importante per me dimostrare che ho lavorato sempre nell’interesse massimo della collettività. Questa assoluzione – conclude - lo dimostra. Ma in dieci anni la vita cambia».