«Strage senza colpevoli». Oppure: «“Solo” cinque condanne». La sentenza del processo per il crollo dell'hotel Rigopiano, travolto da una valanga il 18 gennaio 2017 con la morte di 29 persone, il giorno dopo viene raccontata così. Con i titoli di giornale che cavalcano la rabbia dei familiari delle vittime, esplosa con violenza in aula contro il giudice che, valutate le prove, ha individuato “solo” cinque responsabili. E la banalizzazione di quelle stesse prove che, analizzate da chi ha le competenze per farlo, hanno escluso la responsabilità degli altri. Alcuni dei quali, almeno stando al racconto dei legali, a processo non ci dovevano nemmeno finire. Il riassunto di come la giustizia penale arrivi nelle case della gente sta tutto nella frase twittata dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna», scriveva giovedì poco dopo la lettura della sentenza. Pochi secondi per scrivere un pensiero tanto semplice quanto deleterio. Perché racconta la giustizia e i processi come una gara con vincitori e vinti, in cui i buoni sono sempre e solo quelli che condannano. La risposta al ministro è arrivata dal legale di uno degli imputati, Gian Domenico Caiazza, difensore dell'allora prefetto di Pescara Francesco Provolo, per il quale l'accusa aveva chiesto 12 anni di reclusione. Ovvero la pena più alta, quella esemplare, che forse - ma non è detto - avrebbe placato l’ira di chi, colpito da un dramma terribile, sperava di trovare qualcuno a cui addossare anche le colpe non dimostrate.

«A nessuno viene in mente - scrive Caiazza rivolgendosi a Salvini -, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. O almeno, se ho ben capito: “quasi tutti”. Insomma, posto che se ci sono delle vittime, devono esserci necessariamente dei colpevoli, una volta che una Procura della Repubblica li ha individuati in quegli imputati, questi sono automaticamente “i colpevoli”. Tutti. Siamo tutt’al più disposti a tollerare una percentuale lievissima di assolti, che andrà pur stabilita una volta per tutte, oltre la quale incombe “la vergogna”».

Ma come si è arrivati a queste assoluzioni? È sempre Caiazza a spiegare come nel caso di Provolo - per rimanere all’imputato “eccellente” - forse non si sarebbe dovuti nemmeno arrivare ad un processo. E come sia impossibile parlare di una tragedia «senza colpevoli» di fronte a cinque persone condannate. «Il problema in questo processo è molto semplice. L’albergo era raggiungibile da un’unica strada, che doveva sempre essere tenuta libera. Chi è tenuto a farlo e non lo fa ne risponde». La strada era sotto la gestione della Provincia e quindici giorni prima della tragedia si ruppe la turbina, che avrebbe consentito di liberarla in casi complicati come quelli di quel terribile giorno. Ma perfino il presidente della Provincia non ha mai saputo di quel guasto da chi era tenuto ad informarlo. «Le intercettazioni sono pacifiche: nessuno lo dirà a nessuno. Il Prefetto, secondo l’accusa, avrebbe dovuto organizzare meglio la Sala operativa, perché così, secondo la prospettazione della procura, la notizia sarebbe stata comunicata. Ma questa notizia non era nota e la presenza della Sala operativa, che pure c’era, non avrebbe cambiato nulla - spiega il presidente dei penalisti italiani al Dubbio -. Un giudice onesto, perbene, che studia le carte, non può condannare chi non risulti responsabile. Cosa c’è di così difficile da comprendere? Il giudice ha compreso, sulla base delle prove, che al Prefetto non poteva essere imputata un’omissione rispetto a qualcosa che non aveva mai saputo, in un contesto in cui c’era l’inferno su tutto l’Abruzzo, non solo su Rigopiano. C’erano ospedali, paesi interi senza corrente elettrica, anziani bloccati in casa al freddo. Tutta l’attività di coordinamento della Prefettura è documentata».

La perizia ha poi accertato che il piano valanghe, previsto dalla legge e onere della Regione, non esisteva. E pertanto quella di Rigopiano non era indicata come zona a rischio. «La mancanza della carta valanghe è un tema molto serio, perché l’assenza di tale documento ha consentito di mantenere aperto l’Hotel. La carta è stata fatta con un ritardo di 20 anni, un anno dopo la tragedia - sottolinea Caiazza -. E la richiesta nei confronti del Prefetto era uno scandalo fin dall’inizio. La procura, nell’originaria contestazione - che ha determinato le dimissioni del Prefetto - imputava a Provolo di non aver organizzato né il Centro coordinamento servizi né la sala operativa, derivando da questa condotta omissiva totale la mancata notizia della turbina rotta. Una convinzione fideistica smentita dai dati intercettivi e dalle chat. C’è la certezza che chi era in possesso di tale informazione non l’abbia data a nessuno, nemmeno ai vertici della Provincia. Se tale informazione, una volta venuto giù l’inferno, fosse stata comunicata, la turbina sarebbe arrivata, avendo il Prefetto un potere autorizzativo nazionale». Un concetto che Caiazza aveva chiarito sin dall’interrogatorio, appena avviate le indagini: Provolo ha infatti chiarito di aver messo in piedi un tavolo tecnico per raccogliere le segnalazioni. «Abbiamo presentato i verbali di queste riunioni, con tanto di fogli presenza firmati da 15 persone, fogli che non erano nemmeno stati sequestrati - aggiunge il legale - . Li abbiamo portati noi in procura e la Forestale ne ha verificato la veridicità. E tra le 15 persone presenti c’è sempre stato il dottor Giulio Honorati, delegato della Provincia. Ovvero l’Ente che avrebbe dovuto avere conoscenza della situazione della strada di Rigopiano. Sa cosa hanno contestato? Il fatto che non si trattasse di un vero e proprio Centro di coordinamento servizi, ma di un Cov, Comitato operativo viabilità. L’esistenza di una Sala operativa è dimostrata dalle mail, dalle segnalazioni e dalle risposte date per gestire l’emergenza. Ma per tenere il punto si è arrivati a chiedere 12 anni di reclusione». Ovvero otto anni per il fatto e quattro per depistaggio, per una telefonata giunta alle 11.38 da parte del direttore dell’albergo che dopo le scosse di terremoto comunicava il terrore dei clienti, di cui il Prefetto «non sapeva nulla. Secondo l’accusa sarebbe stata sottratta dalla documentazione, senza tenere conto che non esistono brogliacci sulla circolazione d’informazioni in quelle ore. Il depistaggio - aggiunge poi Caiazza - è un reato dell’investigatore, non del potenziale indagato. E l’ex Prefetto non ha depistato nessuno. Qui il vero scandalo è l’indagine della procura - conclude -. Un’indagine fatta con una pressione ambientale assurda. E non capisco il ragionamento che vuole giustizia solo se vengono condannati tutti. Possiamo ragionare sulle pene, sulla proporzione, ma bisognerebbe prima leggere la sentenza. E contestare con le impugnazioni, non con l’oltraggio in udienza. Abbiamo fatto il processo con le foto delle vittime in Aula. Ma che Paese è questo?».