La Corte di Cassazione si spacca sul decreto Salvini. E le toghe si fanno “la guerra”, usando come ring il campo dei permessi di soggiorno per i migranti. La battaglia riguarda la possibilità di applicare la nuova legge anche ai giudizi pendenti e non solo alle nuove domande, risultando, di fatto, retroattiva. Un punto sul quale ora dovranno pronunciarsi i giudici delle Sezioni Unite, chiamati in causa dal collegio presieduto dal giudice Francesco Antonio Genovese, più propenso a considerare le nuove regole valide anche per le domande presentate prima del 5 ottobre scorso.

Un orientamento decisamente diverso rispetto a quello del collega Stefano Schirò, che a gennaio aveva evidenziato, con la sentenza 4890 della prima sezione civile, l’irretroattività della norma. Ma pochi mesi dopo, il 3 maggio, le cose sono cambiate nonostante la presenza, nei due collegi, di due componenti identici - sotto la presidenza di Genovese, che ha inviato gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per «l'eventuale assegnazione» alle Sezioni Unite.

Tutto parte dalle ordinanze prodotte dalla Cassazione sui ricorsi presentati dal Viminale contro tre sentenze, due provenienti dalla Corte d’Appello di Trieste e una da Firenze, con le quali i giudici avevano riconosciuto la protezione umanitaria a tre cittadini stranieri, due del Gambia e uno del Bangladesh. In un primo caso il riconoscimento era avvenuto in considerazione del «non perfetto stato di sicurezza» esistente in Gambia, nell’altro riconoscendo il radicamento del giovane che aveva presentato richiesta nel tessuto sociale italiano, «nel quale studia e coltiva i suoi principali legami, mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo» e tenuto conto della «sicura prognosi di insormontabili difficoltà di immediata reintegrazione nel Paese di origine». Per il terzo caso, invece, i giudici avevano considerato positivamente l’inserimento nel contesto sociale e il raggiungimento dell'indipendenza economica, essendo stata tale persona assunta a tempo pieno.

Il ricorso proposto da Salvini ha fornito ai giudici della Suprema Corte il pretesto per contestare con passaggi a volte anche molto duri nei confronti del relatore della sentenza precedente - l’interpretazione data a gennaio dai colleghi, secondo i quali le novità introdotte dal decreto «non trovano applicazione» per le richieste di protezione umanitaria presentate prima del 5 ottobre 2018, data dell’entrata in vigore della nuova legge. Secondo quell’interpretazione, le domande avanzate fino al 4 ottobre vanno valutate sulla base della normativa precedente. Con una sola differenza: il rilascio, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura ' casi speciali', adattando così le certificazioni alle indicazioni della nuova norma, che, in pratica, elminia i permessi umanitari, salvo alcune eccezioni. Una contraddizione, per il giudice Genovese, che parla, in alcuni passaggi, di «suggestioni irrilevanti», «ambiguità» e «aporie» e secondo cui, trattandosi di domande di protezione umanitaria non ancora definite in sede amministrativa o pendenti in sede giurisdizionale, parlare di retroattività potrebbe essere errato, fermo restando che tale principio «può essere derogato in modo espresso ovvero tacito e desumibile in modo non equivoco da obiettivi elementi del contenuto normativo». E il decreto Salvini, affermano i giudici, conterrebbe «una norma di diritto intertemporale» che impone di applicare il meccanismo di conversione del permesso umanitario nel permesso «in casi speciali», escludendo, di fatto, l’applicazione delle vecchie norma alle situazioni pendenti.

«Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza 4890 - contestano i giudici - il permesso da rilasciare sarebbe quello nuovo, ma le condizioni sarebbero quelle della legge previgente». Una conclusione non condivisa dal nuovo collegio, secondo cui «non si comprende per quale ragione l'autorità amministrativa non dovrebbe applicare interamente la nuova normativa, essendo tenuta a provvedere alla conversione del permesso che è prevista dalla nuova legge». Aggiungendo, in conclusione, anche una valutazione sull’idea stessa di protezione umanitaria come «oggetto di un diritto immanente e inviolabile della persona», così come definito dalla sentenza precedente. Tale diritto, contestano i giudici, sarebbe comunque «suscettibile di regolazione da parte del legislatore, cui spetta il bilanciamento tra i valori in gioco il controllo del fenomeno migratorio e i diritti delle persone di derivazione anche internazionale posto che altrimenti si consentirebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti in campo, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute».