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DOPO L’ARCHIVIAZIONE DI GENOVA
Dopo l’archiviazione del suo esposto a Genova, il leader di Iv torna all’attacco: «A chiedere l’archiviazione un pm della corrente che chiedeva per me un cordone sanitario »
«Se pensano di fermarmi, non mi conoscono». Dopo la decisione del gip di Genova di archiviare l’esposto contro i magistrati fiorentini presentato da Matteo Renzi, l'ex premier torna alla carica. E preannunciando una nuova denuncia contro i pm di Firenze per aver inviato al Copasir documenti oggetto di sequestro, nonostante la Cassazione li avesse definiti «non trattenibili», ribadisce la convinzione che contro di lui sia stata effettuata una violazione delle regole dello Stato di diritto. Prima fra tutte quella relativa alle guarentigie parlamentari, secondo le quali sarebbe stato necessario chiedere l’autorizzazione al Senato prima di procedere con il sequestro di mail e chat whatsapp dei due imprenditori che parlavano con lui, nonché del suo estratto. Ma per il gip di Genova Claudio Siclari, che ha fatto cadere le accuse di abuso d’ufficio nei confronti del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo, dell’aggiunto Luca Turco e del sostituto Antonino Nastasi - i tre pm che rappresentano l’accusa nel processo “Open” -, le chat intercorse tra Vincenzo Manes e Renzi, nonché quelle tra Marco Carrai e il leader di Italia Viva sono utilizzabili in quanto «non si tratta evidentemente di sequestro di corrispondenza effettuato direttamente nei confronti del senatore Renzi». Ma non solo: secondo il giudice, «non si tratta nemmeno di comunicazioni e di corrispondenza», in quanto «la giurisprudenza ha chiarito che i messaggi di posta elettronica memorizzati nelle cartelle dell’account o nel computer del mittente ovvero del destinatario, costituiscono meri documenti informatici, intesi in senso statico, dunque acquisibili ai sensi dell’art. 234 c. p. p.». La richiesta di autorizzazione non sarebbe stata perciò necessaria e, in ogni caso, non ci sarebbero elementi per sostenere, secondo il giudice, che i magistrati stessero cercando proprio Renzi acquisendo quei dati. Considerazioni che però non convincono il leader di Italia Viva, che in una memoria di oltre 100mila pagine aveva evidenziato come «l'acquisizione “mirata”», «ripetuta e reiterata», fosse evidente «a cominciare dalle parole chiave immesse per la ricerca nei cellulari e, più in generale, nei supporti informatici sequestrati». Ovvero proprio «i nomi dei parlamentari ( coinvolti nell'indagine), per una captazione che è tutt'altro che casuale e indiretta». Ma a sorprendere il senatore di Italia Viva è stata anche la celerità di tutto l’iter: per la procura sono stati sufficienti sei giorni per chiedere l’archiviazione e altri sei sono bastati al gip per concederla. Secondo il giudice Siclari, infatti, gli atti di indagine non sarebbero «idonei a sostenere l'accusa in giudizio, proprio perché l'elemento materiale del delitto di abuso d'ufficio richiede che l'agente violi specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, e dalle quali non residuino margini di discrezionalità; margini che al contrario nel caso concreto residuerebbero». Inoltre, «le indagini suppletive indicate dall'opponente sono superflue, in quanto non aggiungerebbero alcunché al quadro già risultante dagli atti contenuti nel fascicolo del pm». Ciò nonostante la Cassazione, per cinque volte, abbia ritenuto illegittimi quei sequestri, trasformatisi, di fatto, in una «pesca a strascico».
Renzi, nella sua eNews, ricorda le «decine di sentenze in cui la Cassazione chiede di considerare whatsapp come posta privata. Ma, quando il whatsapp è quello di un parlamentare fiorentino, evidentemente le sentenze si interpretano. Buttandola sul ridere, potrei dire che nel 2022 per i giudici di Genova si definisce comunicazione o corrispondenza solo il piccione viaggiatore, i segnali di fumo e l’alfabeto Morse. Ma, siccome voglio essere serio, aspetterò la sentenza della Corte costituzionale - davanti alla quale il Senato ha sollevato conflitto di attribuzioni, ndr - e tornerò alla carica con una nuova denuncia». A sostegno della sua tesi sono infatti diverse le sentenze della Cassazione, tra le quali la 21965 del 2018, secondo la quale «i messaggi che circolano attraverso le nuove ' forme di comunicazione', ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile». Ma non solo: anche la Corte costituzionale ha allargato tale perimetro, ricomprendendo perfino i tabulati e sottolineando il duplice riferimento, nell’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, a «conversazioni o comunicazioni». Cosa che «induce a ritenere che al contenuto di una conversazione o di una comunicazione, siano accostabili, e risultino perciò protetti dalla garanzia costituzionale - si legge nella sentenza 38 del 2019 -, anche i dati puramente storici ed esteriori, in quanto essi stessi “fatti comunicativi”.
Del resto, il termine “comunicazioni” ha, tra i suoi comuni significati, quello di “contatto”, “rapporto”, “collegamento”, evocando proprio i dati e le notizie che un tabulato telefonico è in grado di rilevare e rivelare».
Ciò non è però bastato al giudice per convincersi della bontà dell’esposto di Renzi. Una scelta, sembra dire il leader di Italia Viva, non casuale. «Secondo voi, il pm di Genova che ha chiesto l’archiviazione dei suoi colleghi in sei giorni, a quale corrente apparteneva? Vi do un indizio: capitolo 3 del libro, cordone sanitario… che meraviglia il magico mondo delle coincidenze». Il riferimento è all’articolo apparso su “Questione giustizia”, rivista della corrente Magistratura democratica, sul quale lo storico leader Nello Rossi aveva evidenziato l’esigenza di «stringere un cordone sanitario intorno a sortite come quella “araba” di Matteo Renzi». «Nessuno vuole impedire ai pubblici ministeri fiorentini di indagare ed agire contro il sottoscritto o altri colleghi parlamentari: è loro diritto- dovere farlo e nella veste di rappresentante delle istituzioni si è offerta e si continua ad offrire la doverosa massima collaborazione - concludeva Renzi nella sua opposizione alla richiesta di archiviazione -. Ma ci sono delle procedure e dei diritti, con conseguenti limiti proprio alle attività dell'autorità inquirente, che il Costituente ha previsto e che i pm di Firenze avrebbero volutamente violato. Se la corrispondenza bancaria o i messaggi del sottoscritto costituiscono elementi di interesse per l'accusa, è doveroso che la Procura le acquisisca e le utilizzi; del resto è il sottoscritto ad avere, fin da subito, espresso pubblicamente la disponibilità a votare a favore dell'eventuale richiesta alla Camera di appartenenza. Ma ciò va fatto seguendo le procedure previste dalla Costituzione. E di questo i pubblici ministeri di Firenze erano edotti non solo per l’auspicabile conoscenza del dettato costituzionale, ma anche per l'esplicita diffida contenuta nella mia del 27 novembre 2020».