Non erano bastati i processi - ingiusti - per mafia e per abuso d’ufficio aggravato dall’articolo 7, con una custodia cautelare durata ben cinque anni e 10 giorni, chiusi con l’assoluzione perché il fatto non sussiste. E nemmeno quello per turbata libertà degli incanti, conclusosi con una condanna di sei mesi per la piantumazione di alcune palme, ma con l’esclusione di qualsiasi aggravante mafiosa.

A Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa (Rc), è toccato pure un processo del lavoro, per opporsi all’ingiusta sospensione stabilita dall’Ufficio scolastico regionale, che nonostante l’assoluzione lo ha messo in pausa dal ruolo di insegnante di educazione fisica, spedendolo, poi, a svolgere mansioni diverse lontano dalla sede in cui, prima dell’arresto, aveva sempre lavorato. Una sospensione, ha stabilito ora il Tribunale di Locri dopo due anni, ingiusta, tanto da imporre il pagamento di quell’anno e dieci mesi nei quali Femia è rimasto parcheggiato ingiustamente a casa. «Ho dovuto affrontare tre processi. Un accanimento incredibile. Ma alla fine ce l’ho fatta, ancora una volta», dice Femia al Dubbio.

L’ufficio scolastico aveva sbagliato nell’applicare la legge, dice ora il giudice, che contesta un errore marchiano alle istituzioni scolastiche: aver fondato la propria decisione su una legge che, al momento in cui Femia aveva commesso il fatto, non era in vigore. In base alla norma, infatti, la sospensione «è inflitta per il compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni», per atti «non conformi ai doveri specifici inerenti alla funzione». Tali atti riguardano una gara d’appalto per la fornitura di 40 palme: il sindaco e un suo assessore, secondo l’accusa, avrebbero agevolato una ditta in odor di ‘ ndrangheta, dando in subappalto la piantumazione delle palme sul corso principale.

Ma agli atti del Comune non c’era alcuna delibera di subappalto, né una determina da parte dell’ufficio tecnico. Ma soprattutto, non c’era la fattura da 1500 euro che la procura sosteneva fosse stata pagata. Ma non solo: la ditta, in ritardo con la consegna dei lavori, era stata anche costretta a pagare una multa da 700 euro. Femia, alla fine, è stato condannato: fatale è stata, per lui, la scelta di chiedere ad un imprenditore locale - finito con lui a processo - di fargli i nomi delle persone alle quali avrebbe potuto inviare la lettera di invito a partecipare alla gara. «Una leggerezza amministrativa - ha spiegato Femia nel corso del processo -, ero ad un mese dall’insediamento». Ma soprattutto, il sindaco avrebbe potuto affidare il servizio in maniera diretta, senza passare alcun guaio. «Per una questione di trasparenza e legalità ho preferito indire una gara e far passare tutto dall’ufficio tecnico». Non avrebbe dovuto: dal momento che solo quell’imprenditore (che non risultava legato ai clan) presentò un’offerta, l’appalto risultò truccato, costandogli, alla fine, una condanna a sei mesi, ampiamente scontata con l’ingiusta custodia cautelare di oltre cinque anni.

L’amministrazione scolastica, ragionando sull’opportunità di punirlo, ha considerato una versione dell’articolo 353 del codice penale, comma 2, entrata in vigore nel 2010, che stabiliva un massimo edittale di 5 anni. Femia, però, aveva commesso il fatto nel 2008, quando il reato veniva punito con un massimo di due anni. Non abbastanza per giustificare una sospensione. «Il principio di irretroattività (...) il quale si pone come strumento di garanzia del cittadino rispetto ai possibili abusi e arbitri del legislatore e come mezzo per “calcolare” le conseguenze della propria condotta criminosa, nel rispetto dell’autodeterminazione individuale - scrive il giudice Maria Fenucci -, trova un diretto riscontro costituzionale nel comma 2 dell’articolo 25 della Costituzione e, in un’ottica garantistica, non può che trovare applicazione anche nella specie, in quanto il presupposto per l’applicazione della sanzione disciplinare irrogata è il compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni che non può che essere valutata, anche in un’ottica disciplinare, in relazione alla legge penale più favorevole al reo vigente al momento della commissione del fatto penalmente rilevante, che ha condotto alla condanna e, da ultimo, all’attivazione del procedimento disciplinare.

Conseguentemente, la sanzione disciplinare irrogata è illegittima in quanto non è stata realizzata, né in astratto né in concreto, la condizione del compimento di uno o più atti di particolare gravità integranti reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni». Femia rappresentato dagli avvocati Santo Fortunato Barillà e Lorenzo Micari - aveva chiesto anche la restituzione delle somme decurtate nel periodo di sospensione cautelare, durato in totale 6 anni 10 mesi e 25 giorni, di cui 5 anni e 10 giorni trascorsi, appunto, in carcere. Una parte, quest’ultima, qualificata come sospensione obbligatoria. Ma non il restante anno, 10 mesi e 15 giorni, per il quale ora l’amministrazione scolastica dovrà sborsare il dovuto: essendo illegittima la sospensione, Femia «è meritevole della restitutio in integrum, con il pagamento delle differenze retributive tra l’assegno alimentare percepito e la retribuzione che avrebbe percepito, nonché con diritto alla ricostruzione della posizione contributiva». L’ennesima vittoria dell’ex sindaco nelle aule di giustizia. E, si spera, l’ultima necessaria.