Molto stupore ha suscitato la sentenza d’Appello che ha riconosciuto il marchio di mafiosità all’associazione criminale facente capo al duo Buzzi- Carminati. Tra i motivi di sorpresa vi è l’apparente incongruenza per cui pur riconoscendo il massimo di pericolosità come definizione del reato ad esso si è accompagnata una robusta diminuzione delle pene. Laddove in primo grado decenni di carcere erano stati salutati da scene di giubilo calcistico tra i destinatari, in appello il taglio delle pene, anche robusto come i 6 anni in meno a Carminati, ha suscitato rabbiose reazioni. Mafia capitale: ritorna la giurisprudenza di scopo

L’apparente stranezza trova spiegazione nel ricorso alle vecchie sanzioni previste per il 416 bis prima del 2015, in qualche assoluzione dai reati minori e dalla concessione “a pioggia” delle attenuanti generiche totalmente negate in primo grado.

In questo scenario il rovesciamento della decisione in tema di qualificazione mafiosa, paradossalmente è l’aspetto meno sorprendente perché gli addetti ai lavori sanno che da diverso tempo prima nelle commissioni parlamentari e poi nelle aule di Cassazione è in corso una “ rivoluzione silenziosa” nata da una serie di analisi sociologiche ( i libri di Rocco Sciarrone sulle “Mafie del Nord” e di Vittorio Martone su “Le mafie di mezzo”) tradotte poi nel linguaggio del diritto da una tenace battaglia di alcuni magistrati ( il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’ex Procuratore Nazionale Anti- Mafia Franco Roberti oggi inopinatamente sbarcato nella giunta regionale del governatore campano De Luca) e soprattutto da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Il “nuovo modello di Mafia” è un’organizzazione leggera che può consistere di piccoli gruppi, non legata al controllo del territorio e non abbisognevole di manifestare la propria violenza intimidatrice in quanto perfettamente omogenea e solubile nella società civile che la circonda di suo predisposta alla corruzione ed alla connivenza E così “… la permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato livello di legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l’obiettiva espressione intimidatoria dell’associazione e l’effettiva penetrazione sociale, sicchè il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie» ( Sez. 2, n. 24851 del 04/ 04/ 2017, Garcea e altri, Rv. 270442).

Al netto del linguaggio criptico il concetto è perfettamente sovrapponibile al più rozzo “pensiero” di Alfonso Bonafede: la corruzione permea ampi strati della società cosi da rendere inutile la violenza e l’intimidazione, specchiandosi le componenti criminali e sociali l’una nell’altra.

Lo “stigma” mafioso funge dunque da Daspo giudiziario, perchè alla pena non eccessiva ( in quanto commisurata ad una pericolosità “debole”) si sostituisce con ben maggiore efficacia il complesso delle preclusioni e delle misure di sicurezza per pervenire alla “sanzione sociale” della esclusione dal mondo produttivo dal colpevole. Appunto, “chi sbaglia paga”.

Si sta celebrando dunque tra settori della Magistratura e della politica al governo una saldatura motivata dalla esigenza di bonifica dalla corruzione. Eppure non sono passati che pochi mesi da quando la Corte Costituzionale ha ribadito la sua ferma contrarietà alla “Giurisprudenza di scopo” ed al ruolo del giudice come argine sociale contro i fenomeni criminali. Il rischio, osserva la Consulta di causare la perdita della necessaria terzietà e va aggiunto l’elevata probabilità di conflitti politici di cui i contrasti con la Lega di Salvini possono essere un’avvisaglia.