I SACERDOTI DEL RELATIVISMO

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Nel fumo delle granate, che da Kiev si sparge come una coltre su tutta l’Europa, sfilano le sacerdotesse del relativismo. Il loro monito rievoca la litania terzista che risuonava di fronte al sangue del terrorismo: «Né con lo Stato, né con le Br». E che oggi, con una declinazione adatta ai tempi, diventa: «Né con la Russia, né con la Nato». A questo esito approdano, forse al di là delle stesse intenzioni, le appassionate arringhe di Donatella Di Cesare e di Barbara Spinelli sul Fatto Quotidiano.

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Nel fumo delle granate, che da Kiev si sparge come una coltre su tutta l’Europa, sfilano le sacerdotesse del relativismo. Il loro monito rievoca la litania terzista che risuonava di fronte al sangue del terrorismo: «Né con lo Stato, né con le Br». E che oggi, con una declinazione adatta ai tempi, diventa: «Né con la Russia, né con la Nato». A questo esito approdano, forse al di là delle stesse intenzioni, le appassionate arringhe di Donatella Di Cesare su La Stampa e di Barbara Spinelli sul Fatto Quotidiano. La prima ammonisce dal rischio di quella che definisce «la redutio ad Hitlerum di Putin, la superficiale e fuorviante narrazione secondo cui staremmo assistendo allo scontro tra democrazie occidentali e autocrazie». La seconda censura il deficit di autocritica e di memoria dell’Occidente, reo di aver tradito il presunto impegno, assunto con Gorbaciov, a non allargare di un pollice il perimetro della Nato a Est, e di aver perciò rinunciato a «sventare le motivazioni» dell’aggressione all’Ucraina.

Non ci peritiamo di smontare le tesi delle due intellettuali. Lo hanno fatto con fondati argomenti di memoria e di storia Cristian Rocca su Linkiesta e Paolo Mieli sul Corriere della Sera.

Qui ci preme segnalare uno strabismo che finisce per mettere sullo stesso piano le asimmetrie e le incompiutezze della liberaldemocrazia con le scorciatoie dei regimi, le oligarchie della globalizzazione con le oligarchie di Stato, le amnesie e i tatticismi dell’Occidente con l’aggressione dei tank e delle bombe russe alla vita dei cittadini di un Paese sovrano. È una forma tutta particolare di cancellazione culturale, che impedisce di misurare il peso e gli effetti del potere nello spazio e nel tempo, cioè nel presente e nella storia, e approda a una negazione delle differenze che qualificano le azioni individuali e i grandi processi collettivi. Parafrasando il titolo di un libro di Riccardo De Benedetti, La fenice di Marx, potremmo definire questo atteggiamento “La fenice di Nietzsche”, un fenomeno per cui i cascami del nichilismo novecentesco rinascono dalle loro ceneri, proprio come l’uccello del mito. Nel racconto noir dei trent’anni dalla caduta del muro di Donatella Di Cesare e Barbara Spinelli, c’è il naufragio della pregiudiziale che separa chi difende e promuove la democrazia e chi la avversa. Senza la quale è perfino possibile coltivare il luogo comune, diffuso ai giorni nostri, che le autocrazie abbiano rispetto ai sistemi democratici il vantaggio della risolutezza.

Si sottovaluta l’influenza che questa pedagogia del relativo, innervata in una larga parte dell’intellighenzia e dell’accademia italiane, abbia avuto sulla persistente immaturità civile della nostra opinione pubblica e sull’attecchire in essa del populismo, nella sua grossolana grammatica distruttrice di ogni differenza di valore. È lo stesso schema che equipara il rigore dell’ordoliberismo tedesco alla ferocia della satrapia moscovita, facendo corrispondere ai prezzi civili e sociali, pagati dalla Grecia per la stretta finanziaria imposta dall’Europa nel 2014, quelli inflitti da Putin all’Ucraina. Poiché tutte le egemonie si equivalgono in questa cronica ineducazione al rapporto con il potere, che il potere vorrebbe sterilizzarlo, non accontentandosi di dividerlo con spirito democratico. E finisce invece per trasformarlo in un totem. Questa retorica ha insieme un cedimento anarchico e un tratto latente di antagonismo, come retaggio ideologico del Novecento marxista proiettato nella postmodernità. Non è un caso che il suo demone assoluto sia la globalizzazione, su cui un giudizio liquidatorio rialza a sinistra uno spartiacque invalicabile tra il riformismo e il massimalismo. Al primo non sfugge che la globalizzazione ha portato in venti anni la povertà assoluta nel mondo da due miliardi a 800 milioni di persone, anche se la sua complessità ha messo in crisi istituzioni e società. I riformisti la sostengono, proponendosi di correggerne gli errori, perché c’è nella loro cultura una quota di irriducibile cosmopolitismo che áncora il giudizio di un’offerta politica all’avanzamento universale della condizione umana e che legittima l’anelito a promuovere il modello democratico. Quell’anelito si volta in un grido di dolore e di rabbia di fronte al ritorno dei talebani e alla mattanza dei tank russi. Per il massimalismo, invece, le asimmetrie del capitalismo finanziario sono il peccato originale e la segreta genealogia di ogni radicalismo, che sia la jihad o piuttosto il neo imperialismo di Putin. Senonché, stavolta è proprio l’accerchiamento finanziario la leva più potente per piegare la protervia del dittatore. È questo lo scandalo inusitato della crisi ucraina, che disarma il racconto antioccidentale della crisi: la prova che la politica e la finanza possono tornare in connessione nel nome della pace e della libertà. È la sfida della nuova Europa, difficile ma non impossibile, e comunque tremendamente attuale: rischiarare con una nuova alleanza fondata sui valori della democrazia l’oscurità del pensiero debole che, negando ogni distinzione, offre il bene e il male alle convenienze del dittatore di turno.