Nel settembre 2014, la Commissione Parlamentare Antimafia ha approvato una relazione (cd. codice) in materia di formazione delle liste delle candidature per le elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali, proponendo alle forze parlamentari l’adozione di un’autoregolamentazione sulla valutazione dei candidati politici. Nell’alveo delle sue funzioni, la Commissione assolve compiti legislativamente indicati nell’art. 1 della L. 87/2013, con la quale la stessa venne istituita.

La Commissione, però, ai sensi della relazione (chiamato “codice”, impropriamente) non può adottare alcun provvedimento “attinente alla libertà personale e alla segretezza della corrispondenza” (art. 1, co. 1, cit.), essendo la relazione “soggetto ad adesione volontaria” da parte dei singoli partiti; le disposizioni contenute nella stessa non risultano corredate, altresì, da precettività né sanzioni.

Conseguentemente l’inosservanza al codice o delle raccomandazioni della Commissione non comporta alcuna responsabilità se non nei limiti dell’etica e morale politica, sulla base del principio di affidamento che i cittadini hanno nei partiti politici. \È importante precisare che l’atipicità del “codice” mal si raccorda con la precedente Legge Severino: mentre in quest’ultima – a valenza giuridicamente vincolante – è prevista l’incandidabilità ed il divieto a ricoprire cariche elettive in caso di sentenza di condanna passata in giudicato, per la Commissione Antimafia il momento dell’impresentabilità è anticipato al mero rinvio a giudizio, per la nota serie di delitti caratterizzati da associazionismo per delinquere, di tipo mafioso e illeciti contro la P.A. quali concussione, corruzione etc., così giungendo a riciclaggio e sim..

Nulla vieta, e questo deve esser chiaro, alle forze politiche di promuovere soggetti attenzionati dalle cd. liste degli impresentabili sempre che rendano pubbliche le motivazioni della scelta ex art. 3 del regolamento – codice in materia di formazione delle liste delle candidature.

Va precisato che il diritto elettorale passivo è un diritto soggettivo pieno e perfetto, riconosciuto dalla nostra Costituzione all’art. 51. Nell’ambito del potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51 riserva solamente al Legislatore e solo allo stesso, esistono delle cause ostative all’esercizio di questo che trovano espressa disciplina nel nostro ordinamento giuridico: la Corte Costituzionale, con sentenza n. 25 del 2008, al pari della n. 288 del 2007 e della n. 539 del 1990, stabiliva che l’art. 51 svolge “il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità ex art. 2 della Costituzione”. Non a caso la giurisprudenza costituzionale ha più volte tutelato il fondamentale diritto di elettorato passivo, trattandosi “di un diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali, altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali” (così sentenza n. 235 del 1988 della Corte Costituzionale).

Pertanto pecca di presunzione e di legittimità costituzionale il regolamento – codice adottato dalla Commissione in allora, a firma Rosy Bindi: la casistica ostativa all’esercizio del diritto di elettorato, annoverabile nella “indegnità o impresentabilità” etica, rinvenibile anche in diverse norme contenute nei codici dei partiti, è sottoposta sempre a riserva di legge per espressa previsione costituzionale ex art. 48, co. 3, Cost. che recita: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Indicati dalla legge e quindi dal Legislatore come la Consulta aveva sin dal lontano 1988 indicato. Ma andiamo oltre.

Atteso che la black list della Commissione Antimafia non implica una decadenza ex officio del candidato, non v’è chi non veda come questa comprometta in modo diretto ed irreparabile l’immagine dell’attenzionato e giunga a ledere la presunzione di non colpevolezza. È già raccapricciante apprendere che per ingiusta detenzione lo Stato ha pagato quasi un miliardo di risarcimenti in trent’anni, fornendo la prova della perfettibilità del sistema penale; un quadro sconfortante – come bollina l’on. Costa a margine dell’esame parlamentare sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – nel quale solo nel 2023 sono state indennizzate 4.368 persone illegittimamente trattenute in via cautelare. Se già il processo penale è una pena in via anticipata per chi ne è parte, figuriamoci subire passivamente ed in via immediata, le conseguenze di una sentenza non ancora pronunciata, come gradirebbe la Commissione medesima.

Singolare anche la proposta a firma C. Colosimo che propone di istituire il “reato di parentela”, allargando in modo verticale la black list degli impresentabili a coloro che hanno parenti, fino al IV grado, condannati in via definitiva, in piena lesione dell’art. 27, co. 1, della Costituzione per il quale la re sponsabilità penale è personale. Va bene che è sentimento condiviso quello di tutelare al massimo la res pubblica, che prevenire meglio che curare, ma è altrettanto vero che i diritti costituzionali sono incomprimibili: il territorio che viene ristretto in fase di “guerra” non verrà mai più rilasciato in fase di “pace”.