Hanno finito di scontare la pena al 41 bis, ma vengono raggiunte da una misura di sicurezza e rimangono nello stesso regime speciale. Non vengono più definiti detenuti, ma internati. Ce ne sono centinaia, ma di internati al 41 bis attualmente ne risultano 6, e sono reclusi al carcere di Tolmezzo che teoricamente è una casa lavoro. Il Dubbio se ne è occupato spesso, ma ora il Garante nazionale delle persone private della libertà, nel suo ultimo rapporto tematico, dedica un capitolo molto significativo.

Il Garante sottolinea che non cessa lo stupore nel ritrovare persone che hanno concluso l’esecuzione penale e che sono soggette a misura di sicurezza, sulla base della persistente previsione del cosiddetto “doppio binario” nel nostro codice penale e che eseguono tale misura in regime del 41 bis. È vero – osserva nel rapporto – che le formulazioni restrittive elencate nei diversi commi di tale articolo si riferiscono lessicalmente sempre – o quasi – a “detenuti e internati”. Così come, è altrettanto vero che la Corte costituzionale chiamata a esprimersi su tale ipotesi ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Prima sezione della Corte di Cassazione relativamente alla possibilità di applicazione delle misure di restrizione e controllo indicate al comma 2-quater dell’articolo 41-bis, anche nei confronti di persone internate per l’esecuzione di una misura di sicurezza detentiva.

Tutto vero, ma il Garante nazionale sottolinea che «non può esimersi dal manifestare l’incongruenza di una misura di sicurezza formalmente definita come “assegnazione a una Casa di lavoro”, adottata anche nei confronti di persone che hanno anagraficamente superato l’età lavorativa e, soprattutto, priva di contenuto che possa essere classificato come “lavoro”». E denuncia che alle sei persone destinatarie di tale misura e ristrette nell’Istituto di Tolmezzo non viene proposta alcuna attività configurabile, appunto, come lavoro, se si esclude l’impiego solo di alcuni di loro all’interno di una serra per un totale al più di un’ora al giorno. «Il tutto – si legge sempre nel rapporto tematico - in un contesto in cui la materialità della giornata si svolge in modo strutturalmente identico a quello delle persone detenute e non internate in tale regime, con l’aggravante dell’indeterminatezza della fine non solo dell’applicazione del regime speciale, ma anche della misura di sicurezza in sé».

Ricordando nuovamente che la Consulta ha dichiarato inammissibile il ricorso sulla questione di legittimità costituzionale, nel contempo però riconosce che il trattamento delle persone internate deve essere diverso da quello delle persone detenute. Ciò significa che le restrizioni imposte agli internati devono essere limitate a quelle effettivamente necessarie per garantire l'ordine e la sicurezza pubblica, tenendo sempre presente la finalità risocializzante del trattamento. Proprio a partire da questa stessa sottolineatura della Corte, il Garante nazionale aveva richiesto (lo fece con il precedente rapporto tematico sul 41 bis) e torna a richiedere che per le persone internate, pur sottoposte a tale regime, vengano individuate sistemazioni idonee e confacenti alla misura e che vengano definite le regole che, sulla base del criterio complessivo di sicurezza e della finalità di preclusione di rapporti di comunicazione con le organizzazioni criminali che caratterizzano il regime speciale, tengano pienamente presente la specificità della caratteristica di persone internate e non detenute che connota chi è sottoposto a tale misura. Ciò al fine di evitare, al termine dell’esecuzione penale, «il replicarsi di una pena, eseguita con identiche modalità e in un posto configurato in modo identico, non modulabile peraltro con misure alternative e soggetta al rischio di indefinitezza».

Nel caso in particolare delle sei internati, il Garante denuncia che «non è possibile celare l’assurdità di una finzione di lavoro per due di esse, svolto in una parte minima della giornata all’interno di una serra e la parallela inesistenza di attività lavorativa per le altre persone internate, salvo alcune mansioni interne, per un totale di una ventina di minuti al giorno (le retribuzioni sono conseguenti) ». La situazione attuale riconferma quanto già osservato nel precedente Rapporto: l’assegnazione alla “Casa di lavoro” ridotta a una mera questione nominativa, senza alcuna concreta offerta di attività o lavoro volta al futuro reinserimento, finisce nel consistere in una anomala prosecuzione della detenzione.