Stupore e rammarico per quel che non è, e potrebbe essere. Rimpianto per quel che fu, un tempo, il garantismo dei parlamentari della destra italiana. Parliamo del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, dei suoi deputati e senatori di oggi, messi a confronto con i loro “antenati” di Alleanza Nazionale, la gran parte dei quali proveniva dalla fila del Movimento sociale.

Stiamo quindi ricordando i fratelli e i figli di Giorgio Almirante, il “fucilatore di partigiani” che però andò al funerale di Enrico Berlinguer. Gente d’ordine, autoritaria, forcaiola. E’ facile pensarlo, anche perché la base elettorale della destra italiana, come del resto gran parte di quella di sinistra, non è di certo garantista.

Un po’ come il giovane Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia il quale, un po’ per disinformazione un po’ per semplice superficialità, ha polemizzato con il governo Conte che aveva “scarcerato i mafiosi con la scusa del Covid”. In realtà quella circolare, sollecitata dai giudici di sorveglianza, che suggeriva la sospensione di pena per anziani e malati, di cui non più di cinque detenuti per reati di mafia, salvò tante vite nelle prigioni italiane. E chi era andato a casa, poi rientrò, nessuno scappò.

Stupore e rammarico vanno a braccetto con la memoria. E la memoria proietta il ricordo di personaggi adamantini e grandi avvocati del sud, che fanno parte della storia del Msi e di Alleanza Nazionale, come il calabrese Raffaele Valensise, il sardo Gianfranco Anedda e i siciliani Guido Lo Porto, Enzo Trantino e Giovanni Marino. Un gruppo di avvocati che, insieme a quelli più giovani come Enzo Fragalà, Sergio Cola e Alberto Simeone, furono una comunità di straordinario garantismo, insieme agli esponenti di Forza Italia nella prima legislatura di Silvio Berlusconi nel 1994, e alcuni di loro presero parte al suo primo governo.

La storia di quel gruppo di avvocati del sud di Alleanza Nazionale nella dodicesima e tredicesima legislatura, rivista oggi, fu quasi un miracolo. Non che non esistessero le contraddizioni con il partito e con lo stesso Gianfranco Fini. Ma sarebbe sufficiente un nome, quello di Alberto Simeoni. Si, proprio lui, quello che insieme a un esponente della sinistra garantista ed ex leader di Magistratura Democratica, Luigi Saraceni, riuscì a fare approvare a larga maggioranza, da un Parlamento ben diverso da quello di oggi, una legge che porta il suo nome, quella sulle misure alternative al carcere. Norme che gli furono poi rinfacciate. Così, dopo due legislature, Simeoni non fu più ricandidato e nel 2001 lasciò An. Sorte simile quella di Luigi Saraceni.

Ma stupore e rammarico vanno indirizzati oggi a più alti livelli istituzionali, per quella voce che abbiamo udito uscire dl consiglio dei ministri del 17 luglio e che nessun giurista avrebbe mai voluto sentire. La premier Giorgia Meloni annunciava l’intenzione di adottare, d’intesa con il ministro Carlo Nordio, un decreto d’urgenza per dare interpretazione autentica sul significato di “reati di criminalità organizzata”. Chi è meno giovane ricorda il precedente in cui il governo intervenne con l’interpretazione autentica per far rientrare in carcere 24 detenuti in custodia cautelare per reati di mafia. Era il 1991 e il presidente del consiglio si chiamava Giulio Andreotti. Quel decreto, ad alto profilo di incostituzionalità, fu un servile omaggio alla magistratura “antimafia”. Si trattava di innocenti in custodia cautelare! Che cosa disse anni dopo lo stesso Andreotti? Che quel decreto era “una specie di golpe, un vero sopruso”.

Ora, per quale urgente motivo oggi Giorgia Meloni vuole introdurre ulteriori restrizioni della libertà personale tramite l’interpretazione autentica dei reati di mafia? Se è vero che l’ispirazione viene dal procuratore nazionale “antimafia” Nicola Melillo, la cosa può anche non stupire. Meraviglia piuttosto che la Anm non abbia ancora strillato per l’attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura.

Ma se invece all’iniziativa sta dietro anche una mente giuridica raffinata benché un po’ intrisa di valori etici radicali come quella del sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano, allora la cosa è più preoccupante. Perché stiamo parlando dell’allievo di Pinuccio Tatarella, il garantista cui si sono sempre ispirati gli avvocati del gruppo di cultori dello Stato di diritto che negli novanta misero seriamente in crisi la cultura più securitaria e forcaiola della destra italiana. Alcuni di loro, come lo stesso Tatarella, Raffaele Valensise e Gianfranco Anedda non ci sono più. E con loro Alberto Simeoni e Enzo Fragalà, ucciso dalla mafia. Proprio il deputato di An cui si era rivolta la moglie di Enzo Scarantino con una lettera, subito dopo il suo “pentimento”, in cui ne denunciava le torture e faceva nomi e cognomi. Non era necessario aspettare Spatuzza quindici anni dopo per sapere la verità su Paolo Borsellino. Che cosa succederà ora al decreto Meloni-Mantovano-Melillo? Si sono infilati in un vicolo cieco, dicono quelli che ne intendono. Vedremo se e come ne usciranno. Magari con il pensiero non solo al pentimento postumo di Andreotti, ma anche a quei capitani coraggiosi di Alleanza Nazionale di trent’anni fa.