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Lunedi 20 novembre, quando alle dieci del mattino le tre giudici del processo “Rinascita Scott” entreranno nell’aula bunker di Lamezia per leggere il dispositivo della sentenza, troveranno non solo 338 imputati in visibile ansia per il verdetto, ma anche l’attuale procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. Il quale ha deciso che sarà presente, perché questo processo è la sua creatura prediletta fin da quel giorno di quattro anni fa, era il 19 dicembre del 2019, quello del blitz più clamoroso e scenografico della Calabria, dopo quello famoso di Platì con i suoi trecento arresti e altrettante, o quasi, assoluzioni. È da quel giorno che si attende, che lo stesso ex procuratore di Catanzaro attende.
L’aula bunker costruita appositamente, per contenere un processo da subito definito Maxi, centinaia di imputati e 600 avvocati, migliaia le pagine delle indagini preliminari, quasi tre anni di udienze e poi le richieste di condanne del giugno scorso lanciate come dardi, da uno a trent’anni di reclusione.
Quasi come se in quest’aula si processassero rapine e omicidi, come se fossimo in Corte d’Assise. Ma tutto è stato di grandi dimensioni, fin da subito in questo processo. Perché il procuratore non ha mai nascosto l’ambizione a essere definito il “Falcone di Calabria” e anche perché, fin da quella notte di quattro anni fa, ha dato l’impressione di aver voluto realizzare quel suo primo progetto, di voler smontare e poi rimontare la Calabria come un lego.
E, sempre dicendo, ma lo ripete ogni volta, che il “Rinascita Scott” era il processo che sarebbe passato alla storia, perché la Dda aveva individuato, oltre alle cosche mafiose del vibonese, la famosa “area grigia” della borghesia mafiosa che, con il proprio concorso, in gran parte “esterno”, aveva rafforzato la ‘ndrangheta e le proprie attività criminose sul territorio. Tesi ardita, per quando non isolata. Un po’ perché quella fattispecie di reato non esiste nel codice penale ma è solo una costruzione giurisprudenziale, e anche perché, da Roma a Milano, abbiamo visto di recente una sorta di ribellione silenziosa di qualche giudice sulla sua applicazione in modo troppo superficiale.
È una delle scommesse di questo processo, soprattutto per la presenza tra gli imputati dell’avvocato Giancarlo Pittelli, brillante legale calabrese ed ex parlamentare di Forza Italia. È piuttosto evidente che il procuratore Gratteri, ma anche il sistema dell’informazione, tiene gli occhi puntati sulla sorte di colui che è considerata da una parte la vittima prescelta per dare lustro a tutta l’inchiesta, e dall’altra, quella dell’accusa, la dimostrazione della collusione tra le mafie e una certa parte della società civile e politica. Riflettori accesi sui due protagonisti, quindi.
Il procuratore Gratteri ha chiesto 17 anni di reclusione per Giancarlo Pittelli, facendosi scudo dell’ennesima civetteria, la scommessa. «In pochi avevano creduto in questo processo», aveva detto, accusando i dissidenti e i perplessi di aver “fatto il tifo” perché non si arrivasse fino alla fine e anche di aver in qualche modo irriso per la loro giovane età le tre giudici che sono chiuse in camera di consiglio dal 16 ottobre. In effetti la presidente Brigida Cavasino è nata nel 1982 e le laterali Claudia Caputo e Germana Radici sono rispettivamente del 1986 e 1987.
Ma non è questo il punto. Il problema è sempre quello della terzietà, e anche la forza dell’autonomia dei giudici a essere distanti dai rappresentanti dell’accusa, soprattutto in un caso come questo, con una presenza così ingombrante come quella di Nicola Gratteri, da un mese procuratore di Napoli. Un capo dell’ufficio il quale, pur disponendo di tre procuratori d’aula come Anna Frustaci, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso, ha voluto snocciolare di persona i numeri delle richieste degli anni da far scontare in caso di condanne.
Ha avuto un tono molto forte il procuratore quel giorno, pareva quasi aver emesso una sentenza. Ed è quello su cui conta, è evidente. Anche perché ultimamente non gli è andata molto bene, con i personaggi pubblici, dall’ex presidente della giunta regionale Mario Oliverio, fino al presidente della stessa assemblea Domenico Tallini, fino a una serie di amministratori del processo “Stige”: tutti assolti. Ha perso nel 60% delle volte, a proposito di scommesse.
Fatto sta che l’ultimo giorno di agosto, quando finalmente, dopo un paio di anni trascorsi tra il carcere e i domiciliari, l’imputato Pittelli ha potuto prendere la parola e spiegare alle giudici chi avessero davanti («non sono stato, non sono e non sarò mai un mafioso» ), il procuratore Gratteri non si è neppure fatto vedere. Un piccolo sgarbo formale che pare in contrasto con l’immagine di capitano coraggioso di cui il personaggio è ammantato sia quando nelle conferenze stampa presenta i suoi blitz sia quando fa conferenze nelle scuole o pubblicizza i propri libri. Ma ci sarà lunedì, forte della recente promozione di carriera. Giancarlo Pittelli resterà a casa ad attendere la sentenza.