La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l’assoluzione di Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino accusata della morte di quattro pazienti del reparto di rianimazione dell’ospedale Villamarina tra il settembre del 2014 e il settembre del 2015. I giudici hanno accolto la richiesta della procura generale della Cassazione, riaprendo dunque il caso a sette anni dall’arresto della donna.

Bonino (difesa da Vinicio Nardo) era stata condannata in primo grado all’ergastolo, in quanto ritenuta responsabile di omicidio volontario plurimo aggravato. Una sentenza ribaltata lo scorso anno dalla Corte d’Appello di Firenze, secondo cui la pronuncia dei giudici di primo grado si basava su un assunto «destituito di fondamento», frutto piuttosto di «una ipotesi formulata in astratto, ma non corrispondente alla effettiva realtà dei fatti».

Il reparto in cui sono avvenute le morti era infatti agevolmente accessibile a tutto il personale sanitario e parasanitario dell'ospedale di Piombino. E la sentenza di primo grado era basata, di fatto, sulla convinzione che non esistessero spiegazioni alternative, ribaltando l'onere della prova sulla difesa. Il giudice di primo grado aveva inoltre ritenuto che alcuni elementi fossero assolutamente certi, ovvero la somministrazione del farmaco con un’iniezione diretta in vena, che si trattasse di un certo tipo di eparina e che questo determinasse la possibilità di calcolare il momento di somministrazione con una relativa approssimazione, arrivando a parlare della “costante Bonino”, perché l’infermiera, secondo quei calcoli, era sempre presente. L’ultimo presupposto dato per certo è che il reparto fosse perfettamente controllato con due porte munite di badge e che quindi non vi fossero dubbi su chi fosse presente.

Ma i giudici d’appello avevano smontato uno per uno i capi d’accusa, sottolineando come «sia il presupposto dell'uso di quella specifica sostanza (eparina sodica non frazionata) che quello del metodo di somministrazione (mediante iniezione endovenosa in bolo) sono elementi che avrebbero dovuto essere certi, in quanto costituenti la premessa maggiore del ragionamento accusatorio e, invece, non, lo sono - si legge -. Si tratta, inoltre, di presupposti che non possono essere modificati senza porre in crisi la validità del criterio attraverso il quale, mediante l'incrocio dei range con i turni del personale sanitario in servizio nel reparto di anestesia e rianimazione, si è pervenuti all'individuazione dell’attuale imputata quale unica persona “sempre presente” nei quattro casi e, quindi, ritenuta responsabile».