C’è qualcosa che non torna nel caso dell’anarchico Cospito. Certo non avrà ucciso nessuno, ma risponde di strage per un ordigno esplosivo collocato vicino una struttura dei Carabinieri. Certo non è a capo di un gruppo che si rende responsabile di sistematiche violenze sulle persone, ma ha pur sempre gambizzato un dirigente industriale.

Le carte, a occhio e croce, stanno a posto. Né il ministero della Giustizia, né i giudici della sorveglianza hanno avuto dubbi, e non bisogna essere grandi esperti di diritto penitenziario per capire che Cospito sta tutto dentro il perimetro dell’articolo 41-bis; che ci sono i presupposti di legge per irrogargli il regime di massima sicurezza carceraria, al pari di quanto avviene per i boss mafiosi, al pari di quanto successo per Matteo Messina Denaro.

Eppure, a pelle, qualcosa non torna. Se intellettuali e giuristi di prima vaglia hanno firmato un appello per la revoca del regime speciale all’anarchico detenuto, ci sarà pure una ragione che la pubblica opinione ha diritto di comprendere fino in fondo. Altrimenti passa la narrazione che quando tocca a qualcuno “empatico” ai soliti circoli radical scatti una sorta di difesa d’ufficio, una specie di repentino riflesso condizionato che impone una corale chiamata alle armi in nome del diritto mite e del trattamento umanitario ad personam.

Non è così e la risposta sta proprio nell’ordinanza con cui la Corte che deve giudicare Cospito ha rimesso gli atti alla Consulta ritenendo ingiusto e irragionevole il fatto che il codice penale preveda sempre e comunque la pena dell’ergastolo per il delitto di strage a prescindere dalla condotta posta in essere e dai suoi effetti. La questione in diritto è di un certo rilievo e non è questa la sede per discettare tra la strage commessa per attentare alla sicurezza dello Stato (articolo 285) – dove la pena è quella dell’ergastolo anche se nessuno resta ucciso – e la strage di cui all’articolo 422 che prevede l’ergastolo solo per il caso di morte e, invece, la pena di 15 anni quando nessuno resti ucciso.

La Cassazione ha già deciso la questione nel senso meno favorevole all'anarchico (sentenza n. 38184 del 2022) e si vedrà cosa stabilirà la Corte costituzionale cui si sono rivolti i giudici di Torino “perplessi” a fronte dell’entità della pena da irrogare ad Alfredo Cospito.

È l’unico spiraglio aperto in questa intricata vicenda per poter immaginare una giusta ed equilibrata revisione del regime speciale irrogato all’anarchico. Se gli stessi giudici di Torino, quelli chiamati a valutare le condotte dell’attentatore, considerano la pena dell'ergastolo ingiustificata, irragionevole nella sua invariabile gravità, è probabilmente tra quelle parole che occorre cercare una mediazione tra le norme che regolano il carcere duro e la posizione “in concreto” del detenuto, scrutinata sotto il prisma dell’effettiva gravità dei fatti che gli vengono contestati.

Se la pena appare iniqua agli occhi dei “suoi” giudici e sproporzionata rispetto alle sue responsabilità, allora c’è un varco in cui – al rigore del nomen iuris del reato contestato (la strage) – si sostituisca la mite, appropriata, equilibrata individuazione del regime carcerario cui Cospito deve essere sottoposto.

Ma lungo questo crinale la questione diventa subito sdrucciolevole e il cammino periglioso. A ogni indagine antimafia segue sempre un certo nugolo di decreti ministeriali che dispongono il 41-bis, ossia la detenzione di massimo rigore. A volte succede perché si tratta di soggetti effettivamente pericolosi (vedi Matteo Messina Denaro) che è bene custodire con severità; in altri casi tocca agli anelli deboli delle stringhe di omertà, ai soggetti che – per condizioni personali o familiari – appaiono più disponibili a una collaborazione con la giustizia e che si ritiene poco reggano le asprezze delle supercarceri. A dire il vero non è che si mietano chissà quali successi su questo fronte e manca una statistica, pur utile, che indichi quante collaborazioni di giustizia provengano dal carcere duro.

Tutto questo armamentario postula reati efferati, grande allarme, minacce costanti alla sicurezza pubblica e poco concede a quella personalizzazione del trattamento penitenziario che rappresenta il nocciolo duro della funzione della pena nella nostra Costituzione. Una personalizzazione che costituisce l’unica strada verso la rieducazione dei condannati. Ecco, la vicenda Cospito è un caso, abbastanza raro, in cui è possibile cogliere l’asimmetria tra le condizioni di detenzione imposte dalla legge per il reato di cui risponde e l’effettiva lesività delle condotte che gli sono ascritte; in cui appare nella sua fragilità costituzionale la previsione di regimi speciali sulla scorta, quasi esclusiva, della gravità del crimine contestato. È vero, il terreno della pericolosità sociale, dell’incolumità pubblica, del rischio di collegamenti è una scatola vuota pronta a custodire ogni presunzione, ogni congettura, ogni illazione, ogni sospetto, ma sicuramente gli attentati e i gesti violenti di questi giorni valgono solo a serrare a più mandate la porta della cella di Alfredo Cospito.