Un errore di qualificazione giuridica, come scrivere che una persona è “imputata” quando invece è ancora solo “indagata”, può integrare diffamazione e far venir meno la scriminante del diritto di cronaca. Lo ha stabilito con una pronuncia destinata a segnare un punto di svolta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 13200/2025, depositata il 18 maggio 2025.

L’occasione è stata il ricorso proposto da un giornalista e dal direttore responsabile dell’edizione online di un noto settimanale italiano, condannati dalla Corte d’Appello di Roma per aver attribuito a un noto banchiere, nel 2013, la qualità di “imputato” in relazione a una presunta truffa milionaria legata all’acquisto di azioni “Telecom Argentina”. In realtà, all’epoca dei fatti, l’uomo era solo indagato, per giunta per un reato tentato, non consumato, e la richiesta di rinvio a giudizio sarebbe arrivata solo settimane dopo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando il principio di diritto secondo cui «non è configurabile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato», scrivono le Sezioni Unite, «salvo che il giudice accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori».

Per i giudici di legittimità, rappresentare una persona come formalmente imputata quando non lo è produce un impatto diretto sull’opinione pubblica. Ecco cosa scrivono a tal proposito. «La differenza tra indagato e imputato è significativa e si riverbera sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento nel reato. Si tratta di uno snodo decisivo nel passaggio dal procedimento al processo». Il giornalista, secondo la Suprema Corte, non può limitarsi a riportare «verosimiglianze», in quanto è tenuto a un controllo accurato delle fonti da cui attinge le notizie: «L’errore del giornalista nel controllo delle fonti può esimerlo da responsabilità solo se incolpevole. La verità putativa va accertata alla luce di uno standard comportamentale improntato a diligenza e professionalità».

Nel caso specifico, la Corte ha sottolineato che già nel titolo l’articolo attribuiva al soggetto la consumazione di un reato di truffa, mentre risultava solo indagato per un tentativo. Inoltre, si affermava che la orocura avesse già chiesto il rinvio a giudizio, quando tale atto non era stato redatto dall’ufficio inquirente. A tal proposito, la Cassazione ritiene che «inesattezze di questa natura infondono nella narrazione una carica diffamatoria non marginale, idonea a ledere la reputazione del soggetto coinvolto».

La Suprema Corte ha poi dedicato ampio spazio nella motivazione della sentenza al ruolo della stampa giudiziaria e ai suoi doveri: «La cronaca giudiziaria si configura come una rappresentazione neutra e fedele della realtà, finalizzata a garantire ai cittadini un’informazione chiara e trasparente». Non basta evocare la libertà di stampa per giustificare tutto: «Il giornalismo responsabile, fondato sull’art. 10 Cedu, impone che il giornalista agisca in buona fede e sulla base di informazioni accurate e affidabili. Altrimenti si compromette anche il diritto della collettività ad un’informazione vera e corretta».

I giudici hanno confermato anche il risarcimento di 25mila euro disposto dalla Corte d’Appello, oltre a una sanzione pecuniaria di 5mila euro ai sensi dell’art. 12 della legge sulla stampa, e alla pubblicazione dell’estratto della sentenza sul noto settimanale. La valutazione del danno è stata fondata sulla «gravità dei fatti attribuiti», la «diffusione nazionale del settimanale» e la posizione apicale del soggetto coinvolto. In definitiva, l’attività giornalistica non può travalicare i confini della responsabilità, specie quando si tratta di vicende giudiziarie. Una narrazione infedele rischia quindi di compromettere l’equilibrio tra informazione e reputazione della persona sottoposta a indagini o eventualmente a giudizio.