Nella seconda giornata del convegno “Le parole e i diritti”, organizzato dalla Rete dei Comitati Pari opportunità, dal Consiglio nazionale forense e dalla Scuola superiore dell’avvocatura, è stato dedicato ampio spazio al linguaggio del processo nella declinazione di genere. Un tema cardine, considerato che per ogni giurista la parola è un fondamentale strumento di lavoro. Filo conduttore il recente orientamento della Cedu, richiamato dall’avvocata Giovanna Ollà ( vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura) che ha moderato la sessione di ieri. «L’intervento della Cedu – ha evidenziato l’avvocata Ollà -, con la sentenza del 27 maggio 2021, nel caso J. L. contro Italia, relativo al ricorso n. 5671/ 16, sul linguaggio sessista di genere nell’ambito delle decisioni giudiziarie, ha un carattere dirompente. La decisione giudiziaria, intesa come culmine del processo e dell’accertamento della verità, deve essere considerata come un ambiente protetto, pur nel rispetto delle garanzie processuali della difesa. Un cambio di passo culturale è sicuramente un bene, ma è chiaro che tutto questo deve avvenire con il necessario bilanciamento tra il rispetto della vittima e le garanzie di tutte le parti del processo».

Sullo stereotipo di genere si sono soffermate Valentina Ricchezza ( giudice del Lavoro del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere) e Iacopo Benevieri ( penalista del Foro di Roma). Entrambi hanno fatto riferimento alla loro esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie. «Il problema dello stereotipo – ha detto Ricchezza - l’ho riscontrato anche in sentenze recenti sul tema delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, in cui ancora vige un modello comunemente accettato anche dalle donne lavoratrici. Fatti di molestie sessuali vengono valutati dalla giurisprudenza non solo con un linguaggio riproduttivo di uno stereotipo di genere, ma anche con il rischio di sconfinare nella vittimizzazione secondaria».

Secondo l’avvocato Benevieri, «il pregiudizio e lo stereotipo non possono appartenere al vocabolario di avvocate, avvocati, magistrate e magistrati». «Il pregiudizio e lo stereotipo – ha aggiunto - non appartengono alla grammatica del diritto e del processo, che sono strumenti di inclusione e di risoluzione dei conflitti. Lo stereotipo parla un linguaggio polarizzante, che esclude e che, quindi, divide la società. Il processo è una civiltà di parola, una rivoluzione epocale che delega alla parola stessa la risoluzione dei conflitti all’interno della società».

Sull’importanza delle parole e sul coinvolgimento dei giovani ha riflettuto l’avvocata Daniela Giraudo, consigliera Cnf e coordinatrice della Commissione Educazione alla legalità. «Le scelte e le condotte di vita delle persone – ha affermato l’avvocata Giraudo - non dovrebbero diventare una scriminante rispetto a fatti e accadimenti gravissimi. Oggi parliamo di valenza delle parole, di importanza dei comportamenti. Ma la sfida per tutti noi è di ripartire dai più giovani e di creare una società che davvero dimentichi retaggi culturali che provengono dai secoli passati. Con la Commissione del Cnf stiamo lavorando in questo senso, per insegnare a giovani e giovanissimi ad usare il linguaggio più corretto possibile pur mantenendo posizioni diverse». Ileana Fedele, magistrata e presidente della Commissione pari opportunità della Corte di Cassazione, ha dedicato il suo intervento alla coerenza del linguaggio nel contesto giuridico. «Bisogna arrivare a un linguaggio inclusivo – ha commentato - che sia però condiviso, ma, soprattutto, che si adatti alle esigenze e alla peculiarità del linguaggio giuridico, confacente alla Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha avviato già un percorso di riflessione culturale con linguisti e università per l'elaborazione di linee comuni, cogliendo il suggerimento delle raccomandazioni del Parlamento europeo sul linguaggio neutrale: non è necessario avere immediatamente una formula linguistica standard, ma è importante giungere a una soluzione comune. L’interesse della Corte è di approdare a un risultato chiaro, efficace e condiviso che possa gettare le basi di un cambiamento culturale con un approccio duraturo».

Una attenta disamina sulla sentenza della Cedu del 2021 è stata fatta da Paola Di Nicola Travaglini, giudice penale della Corte di Cassazione, che ha anche usato parole di encomio verso l’avvocatura. A detta della magistrata, «avere una avvocatura che ha il coraggio di interrogarsi sul linguaggio e sugli stereotipi e i pregiudizi di genere in ambito giudiziario dimostra che essa esercita un ruolo sociale e culturale». «La sentenza della Cedu del 2021 – ha proseguito – indica che siamo l’unico Paese ad essere condannato per sessismo giudiziario, ossia la dimostrazione dell’assenza di imparzialità. La sfida è costruire enunciati universali in nome dello Stato. La sentenza è il portato del contesto sociale e culturale dell’aula di giustizia prima che giuridico. La sfida della magistratura e dell’avvocatura è costruire un mondo che abbia il diritto umano delle donne di esistere con il loro femminile, del diritto di non corrispondere a modelli prestabiliti. È un problema etico, prima che culturale, e giuridico perché è il diritto delle donne di pretendere che non ci sia più svalutazione, omissione e ridimensionamento. Stiamo portando avanti una battaglia di civiltà».

Infine, l’avvocato Antonio Voltaggio, nel suo intervento sul linguaggio usato nei procedimenti di diritto di famiglia, ha fatto riferimento ad un “non- linguaggio” adoperato dai consulenti tecnici e fatto proprio dai giudici nel contesto delle liti familiari. Ha evidenziato altresì che, spesso, prendono corpo alcuni «pregiudizi contrari all’interesse superiore del minore». Il convegno di ieri ha creato un dibattito molto utile e costruttivo, un’occasione di arricchimento professionale per tutti.