Nei giorni del lutto per Silvio Berlusconi, il discorso sulla giustizia non finirà tra parentesi. Non sarebbe giusto, vista la storia del leader scomparso. Se ne parlerà mercoledì agli Stati generali dell’avvocatura, convocati a Roma dal Cnf d’intesa con l’Ocf, la Cassa forense e tutti gli Ordini territoriali (dalle 10.30 presso la Pontificia Università della Santa Croce).

Si parte da un punto di frizione che chiama ancora una volta in causa il diritto di difesa: la “proposta”, o per meglio dire lo “schema” di regolamento ministeriale sui criteri di redazione degli atti giudiziari. Venerdì scorso, in un’intervista al Dubbio, il presidente del Cnf Francesco Greco ha preannunciato un appello che, nelle prossime settimane, sarà rivolto dall’avvocatura a tutti gli eletti, di tutte le forze politiche, provenienti dalla professione forense: un sostegno alla battaglia contro la compressione dell’attività difensiva. Il nodo è appunto la nuova disciplina che dovrebbe irregimentare l’esposizione scritta, in tutte le fasi e in tutti i gradi del processo civile. Greco ha annunciato la bocciatura del provvedimento, sul quale lo scorso 23 maggio via Arenula aveva chiesto al Cnf di esprimersi con un parere ufficiale (il Csm ha emesso a propria volta una valutazione positiva, con la sola richiesta di rinviare l’entrata in vigore, attualmente prevista già per il prossimo 30 giugno).

In quel regolamento si arriva a stabilire al millesimo lo spazio che può avere un atto difensivo. Si rischia di scivolare verso una giustizia da formulario robotico. «L’avvocatura non si lascia imbavagliare», ha avverto il presidente del Cnf. Va detto che siamo alla classica goccia traboccante dal classico vaso. Il regolamento precipita su una situazione già compromessa dai vincoli della riforma Cartabia, che impone di anticipare ogni elemento della causa civile al primo giro di valzer, con l’impossibilità inserire in seguito ulteriori aspetti, seppure fossero decisivi. Tutto per burocratizzare, incanalare, semplificare il percorso della causa. E sperare così di stare entro quei parametri di riduzione dei tempi, che in campo civile dovrebbero essere del 40 per cento nel 2026, come sancisce l’accordo con Bruxelles per l’erogazione dei fondi destinati al Pnrr. Siamo arrivati al punto da comprimere anche verbalmente la difesa pur di assecondare le richieste dell’Europa. Che saranno coerenti con l’ambizione dell’efficienza e dell’apertura al mercato, ma rischiano di trascurare un principio che dovrebbe precedere ogni altro obiettivo: la civiltà del diritto.
Coloro che, come gli avvocati, sono chiamati a garantire i diritti dei cittadini, l’accesso alla giustizia, la tutela della propria stessa vita, non intendono partecipare a un gioco in cui si concede tutto a un presunto efficientismo. Non è una semplice e orgogliosa rivendicazione di ruolo: è un appello alla civiltà. E l’appello, come ha detto Greco nell’intervista al Dubbio, non potrà lasciare indifferenti i parlamentari-avvocati, coloro che saranno pure entrati alla Camera o al Senato sotto le insegne di una forza politica ma che non dovrebbero mai dimenticare il mondo da cui provengono.
È il nodo più interessante. In parte sciolto dalla risposta positiva alla chiamata del presidente Cnf espressa intanto dai parlamentari-avvocati di opposizione, interpellati sul Dubbio di sabato scorso. Da come i rappresentanti dell’avvocatura reagiranno in Parlamento, si comprenderà se nelle istituzioni rappresentative esiste ancora un margine di autonomia, se lo slittamento efficientista verso il quale sempre più si tende a spingere il processo suscita una qualche indignazione, un qualche allarme. In altre parole: anni di delegittimazione della politica, che hanno tra l’altro favorito la frequente rassegnazione del nostro paese ai dogmi eurocomunitari, lasciano sopravvivere un qualche barlume di reale rappresentanza o hanno polverizzato tutto?
Qui ci si gioca non poco. Ci si gioca un’attuazione meno compulsiva e più ragionevole del Pnrr. Un equilibrio diverso tra richieste di Bruxelles e risposte dei governi nazionali. Del nostro in particolare. Nella partita in apparenza settoriale del regolamento su “brevità” e redazione degli atti, si coglie l’emblema di un discorso generale e serissimo. In questi mesi l’esecutivo di Giorgia Meloni ha sviluppato una linea dialettica sul Pnrr, dettata soprattutto dall’affanno nel tenere il ritmo delle scadenze: il ministro Raffaele Fitto prefigura una radicale ristrutturazione del Piano. Sarebbe paradossale se la giustizia fosse il solo versante sul quale questa legittima rivendicazione di equilibrio finisce per dissolversi. Se ne ricaverebbe il senso di una consapevolezza democratica al tramonto. In un paese che non ha premura per le garanzie, che non tutela effettivamente i diritti, la democrazia è già in vendita. Si vedrà se lo sono anche i parlamentari che hanno indossato la toga o se invece, come sembra dai primi segnali, conservano l’orgoglio per un valore sul quale poggia tutta l’architettura della democrazia.