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GIOVANNI FALCONE
Dopo un recente articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, sui social è tornata a circolare un’immagine di Giovanni Falcone con una citazione in cui gli si attribuisce un monito contro la separazione delle carriere: “Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all'esecutivo. Questo è inaccettabile”. La frase sarebbe stata pronunciata in un'intervista a Repubblica del 25 gennaio 1992. C'è un solo problema: quella intervista non esiste.
Chiunque abbia accesso all'archivio storico di Repubblica può verificarlo. Il 25 gennaio 1992 non c'è traccia di alcuna intervista a Falcone. La frase, peraltro, non è nemmeno nel suo stile. Giovanni Falcone non si esprimeva mai in slogan. Era un magistrato che ragionava in profondità, che pesava ogni parola, che non cedeva mai alla demagogia del momento.
Nell'archivio di Repubblica ci sono invece tante altre sue interviste. Una in particolare merita di essere letta: quella del 26 settembre 1990, realizzata da Giuseppe D'Avanzo. Come questo passaggio che oggi riceverebbe linciaggi: “Sta sostenendo che il pm deve essere non più dipendente dal Giudiziario ma ricadere nella sfera dell'Esecutivo?” chiede D'Avanzo. Ecco cosa risponde Falcone: “So che questa è un'accusa. Bene, di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall'Esecutivo. Non stiamo discutendo di categorie immutabili, ma di scelte di politica legislativa. Ciò che va bene in un paese può non andare bene in un altro e l'Italia è uno dei pochissimi paesi dove la pubblica accusa non è dipendente dall'Esecutivo. Tuttavia, ciò non è servito un granché nella lotta contro la criminalità organizzata. Anch'io, comunque, sono convinto che, nell'attuale momento storico, l'indipendenza del pm vada salvaguardata e protetta. Ma l'indipendenza non è un privilegio di casta”.
Proviamo a immaginare oggi un magistrato che dica pubblicamente “di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall'Esecutivo”. Sarebbe linciato in piazza. Falcone invece aveva il coraggio intellettuale di dire cose scomode, di ragionare fuori dagli schemi, di non rifugiarsi nelle frasi fatte.
Il vero pensiero di Falcone
Alla fine degli anni Ottanta l'Italia ha cambiato il processo penale. Il nuovo codice - la riforma Vassalli - ha introdotto un modello accusatorio: il pubblico ministero diventa “parte” nel processo, come l'avvocato difensore, e il giudice deve restare neutrale. Falcone aveva le idee chiare su cosa significasse questo cambiamento. Nel 1991, in un'intervista a Repubblica (quella sì, autentica), spiegava: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice”. E ancora: “Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri”.
Il ragionamento era semplice: se nel nuovo processo il pm è una “parte”, non può più essere intercambiabile con il giudice. Servono formazione diversa, carriera diversa, competenze diverse. Già nel 1988, appena varato il nuovo codice, Falcone aveva detto in un convegno: “In un codice che accentua vistosamente le caratteristiche di parte del pm, è impossibile pensare che le carriere dei magistrati del pubblico ministero e quelle dei giudici potranno rimanere ancora a lungo indifferenziate”.
Gli argomenti tabù
In un intervento pubblico del 1990, Falcone aveva messo sul tavolo con franchezza tutti i temi spinosi: “Io credo che bisognerà ridiscutere ed approfondire tutti i vecchi problemi di sempre: i criteri di addestramento e aggiornamento professionale del pm, la stessa unicità delle carriere con quella dei giudici, i criteri di valutazione e di progressione in carriera, il conferimento degli incarichi direttivi, la eventuale temporaneità degli stessi; la personalizzazione o meno degli Uffici del pm; i controlli istituzionali e le correlative responsabilità dei magistrati. Non possono esistere argomenti-tabù e difese quasi sacrali di istituti, come ad esempio quello dell'obbligatorietà dell'azione penale”.
Falcone non voleva zone franche, non voleva che nulla fosse intoccabile per principio. Parlava di “unicità delle carriere” come di qualcosa da “ridiscutere ed approfondire”, non come di un totem da difendere a ogni costo. Metteva persino in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale – che oggi alcuni considerano quasi un dogma costituzionale.
Falcone non stava facendo una battaglia ideologica. Stava dicendo una cosa pratica: se cambi il processo ma non differenzi le carriere, rischi di lasciare tutto com'era. Il pm resta una specie di “quasi-giudice”, il giudice perde neutralità percepita, le garanzie si indeboliscono.
Con la separazione, inoltre, lo stesso pm potrà avere una formazione adeguata, aggiornata e specializzata, visto che oggi viene preparato per svolgere un mestiere molto diverso da quello che dovrà poi di fatto praticare. Sono passati più di trent'anni dal codice Vassalli. Il processo è cambiato, ma la discussione sulla separazione delle carriere è ancora aperta e divisiva. Viene da chiedersi: chi ci ha guadagnato da questa ambiguità? E perché è così difficile completare la riforma che Falcone già riteneva necessaria nel 1988?
La mistificazione
La frase inventata che circola sui social è funzionale a una narrativa precisa: quella di un Falcone che sarebbe stato contrario alla separazione delle carriere per timore di subordinare la magistratura all'esecutivo. Ma è esattamente il contrario della verità. Falcone non aveva paura di mettere in discussione le sacralità corporative. Non aveva paura di dire che un pubblico ministero dipendente dall'Esecutivo “non lo scandalizzerebbe”, pur ritenendo che nel contesto italiano l'indipendenza andasse salvaguardata. Non aveva paura di affermare che l'indipendenza non è un “privilegio di casta”.
Chi oggi inventa frasi che Falcone non ha mai pronunciato, chi gli mette in bocca timori che non aveva, chi lo trasforma in un difensore dello status quo che lui stesso criticava, sta compiendo una doppia operazione: mistifica il suo pensiero e, soprattutto, gli manca di rispetto. Falcone non è un totem da tirare per la giacchetta a seconda delle convenienze. Non lo voleva essere in vita, non dovrebbe esserlo da morto. Il minimo che gli dobbiamo è leggere quello che ha davvero scritto e detto, non quello che qualcuno vorrebbe che avesse detto.
Le sue parole sono lì, negli archivi, nelle interviste autentiche, negli atti dei convegni. Basta avere l'onestà intellettuale di andarle a cercare. E il coraggio di accettare che magari non dicono quello che fa comodo alla propria parte.


