L'ipotesi che l'ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti sia stato il mandante dell'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa non è una novità. Le recenti dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa, figlia del generale, durante la trasmissione Rai “Tango”, non rappresentano una rivelazione scioccante, ma piuttosto una riaffermazione di ciò che lei e suo fratello Nando sostengono da decenni.

Questa teoria è stata addirittura oggetto di indagine nel processo contro Andreotti, avviato dagli ex pm della Procura di Palermo Roberto Scarpinato, Gioacchino Natoli e Guido Lo Forte. L'accusa ipotizzava il possibile coinvolgimento di Andreotti «in gravissimi fatti specifici quali gli omicidi di Pecorelli e del generale Dalla Chiesa». Come sappiamo, è stato categoricamente escluso che Andreotti abbia avuto tali compromissioni.

Il fatto che ora anche la figlia di Dalla Chiesa riproponga questa narrazione, semplicemente reiterando ciò che si è sempre detto, viene presentato come una notizia, quasi fosse una conferma. Tuttavia, se ci fosse stato il minimo sospetto concreto, lo stesso Giovanni Falcone non avrebbe mai accettato di lavorare presso il ministero della Giustizia durante il governo Andreotti. In ogni caso, dovrebbero essere i fatti a contare, non le illazioni.

È importante ricordare, e non è un dettaglio trascurabile, che lo stesso Totò Riina, intercettato durante l'ora d'aria al 41 bis il 6 novembre 2013, ha stigmatizzato tale tesi. Il “capo dei capi”, rivolgendosi al suo compagno d'ora d'aria Alberto Lorusso, commentava le dichiarazioni dei figli di Dalla Chiesa, che sostenevano che lo Stato fosse responsabile della morte del padre. Riina rivendicava chiaramente la responsabilità mafiosa nell'omicidio e, con un linguaggio volgare, sprezzante e pieno di disprezzo, faceva riferimenti offensivi alla giovane moglie di Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, uccisa insieme a lui. Riina ci teneva ad affermare il potere di Cosa Nostra, presentandosi come l'unico “uomo” capace di “fare giustizia”. E lo faceva autocelebrandosi, descrivendosi come un uomo unico, di cui non ne sarebbero nati più.

Come sempre, usando la teoria dei livelli superiori che danno ordini a Cosa Nostra, come se fosse pura manovalanza, passa in secondo piano tutto ciò che ha scatenato il movente di questo ennesimo omicidio eccellente avvenuto a settembre del 1982. Da tenere ben presente, che solamente tra il 1980 e il 1983, la sola provincia di Palermo fu teatro non solo di migliaia di omicidi causati dalla guerra di mafia, con l'ascesa dei corleonesi, ma anche di omicidi “eccellenti” di rappresentanti delle istituzioni. Tra questi, ricordiamo il presidente della Regione Piersanti Mattarella, l'onorevole Pio La Torre, il giudice Rocco Chinnici.

Non furono risparmiati nemmeno gli ufficiali dei Carabinieri, come il capitano Emanuele Basile (la cui morte causò grande dolore a Borsellino) e il capitano Mario D'Aleo. L'omicidio Dalla Chiesa, quindi, non fu un caso isolato, ma si inserì nella più ampia strategia di attacco allo Stato portata avanti dalla mafia di quel periodo.

È innegabile che il generale Dalla Chiesa, noto per la sua inavvicinabilità, abilità e determinazione, rappresentasse una seria minaccia per Cosa Nostra e i suoi interessi economici. Ma non solo. Nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”, Giovanni Falcone offre una prospettiva illuminante sull'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Secondo Falcone, la rapida decisione della mafia di eliminare Dalla Chiesa poco dopo la sua nomina a prefetto di Palermo fu motivata dalla percezione che rappresentasse una minaccia troppo grande, nonostante non avesse ancora avuto il tempo di avviare pienamente la sua attività investigativa.

Falcone sottolinea come Dalla Chiesa fosse arrivato a Palermo con grande determinazione e un'alta aspettativa di risultati, data la sua reputazione nella lotta al terrorismo. Falcone suggerisce che la nomina di Dalla Chiesa, fortemente personalizzata e carica di aspettative, possa aver paradossalmente accelerato la decisione della mafia di eliminarlo, temendo la sua determinazione e professionalità.

Su cosa stava indagando il generale Dalla Chiesa prima del suo brutale assassinio? La risposta emerge chiaramente dalle parole di Falcone e Borsellino nell'ordinanza che diede il via al Maxiprocesso, e dallo stesso Dalla Chiesa in un'intervista a Giorgio Bocca su La Repubblica, un mese prima della sua morte.

«Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica», dichiarò Dalla Chiesa a Bocca. «È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia Occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».

Queste parole suonarono come un chiaro campanello d'allarme per chi all'epoca traeva vantaggio illecito, soprattutto nel settore degli appalti. Parlando della mafia catanese nell'intervista a Giorgio Bocca, aveva lanciato un chiarissimo messaggio a “Cosa Nostra”, dimostrando di conoscere i dinamismi attuali della mafia e di non avere alcuna paura a dirlo chiaramente, in un momento in cui tutto concorreva a far passare sotto silenzio questo asse Palermo-Catania.

La dichiarazione scatenò l'ira dei famosi “4 Cavalieri”, definizione di Pippo Fava de gli imprenditori catanesi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo, e provocò persino la reazione dell'allora presidente della Regione Siciliana, Mario D'Acquisto, come documentato nella relazione della commissione Antimafia sulla criminalità organizzata catanese. D'Acquisto invitò pubblicamente il prefetto a «definire nei dettagli e meglio specificare il contenuto di quanto da lui comunicato alla stampa – ed implicitamente – ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate». Ma Dalla Chiesa non si fermò: già a giugno 1982 aveva richiesto al prefetto di Catania «una scheda completa riguardante i nuclei familiari, gli interessi, le società ed i possedimenti degli imprenditori Graci e Costanzo».

La risposta che ricevette, come riporta la Commissione, fu una nota che sottolineava la rilevanza degli interessi economico-finanziari gestiti dagli imprenditori, giustificando alcuni rapporti con la criminalità catanese come «necessitati» per «non compromettere» tali interessi. È significativo notare che poco più di un anno e mezzo dopo l'omicidio di Dalla Chiesa, venne assassinato anche il giornalista Pippo Fava, colpevole di aver investigato proprio sui “4 Cavalieri” di Catania.

A corroborare queste considerazioni, ci viene in aiuto l'ordinanza di rinvio a giudizio del celebre Maxiprocesso. Falcone e Borsellino, nel Volume 18, pagina 3.698, scrissero: «Le complesse indagini sull'intera materia dei condizionamenti e delle commistioni dell'imprenditoria catanese col potere mafioso sono ancora in corso e richiedono tempi lunghi. Allo stato, comunque, non è possibile stabilire se ed in quale misura quel contesto ambientale, come sopra delineato, abbia influito nella determinazione mafiosa di uccidere Dalla Chiesa. Un fatto è certo: che il prefetto è stato eliminato proprio quando aveva cominciato ad appuntare pubblicamente la sua attenzione su Catania».

Sarebbe certamente più semplice se esistesse un'entità superiore, un “Andreotti” che impartisce ordini alla mafia. Proprio lui che fece leggi durissime contro la mafia, anche forzando il diritto se pensiamo – dopo l’allarme lanciato da Falcone - al decreto legge che raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per gli imputati di mafia del maxiprocesso. Pensare all’entità che eterodirige tutto, è solo la classica narrazione che non stimola il ragionamento critico né uno studio approfondito della questione. E non rende giustizia a chi si è sacrificato fino alla morte.