«Dopo otto anni mi si chiede di fare ancora una salita. Vorrei seppellire mio fratello e non posso ancora farlo. Pensavo che la guerra fosse quella con le armi, nei posti in cui andavo a lavorare, invece non è vero. Ce n’è un’altra». Marzia Corini, anestesista, aderente a una nota Ong, pensava che la sua partita con la giustizia si fosse chiusa lo scorso anno, quando la Corte d’Assise d’appello di Genova l’ha assolta perché il fatto non sussiste dall’accusa peggiore che potesse piombarle addosso: quella di aver provocato la morte, con una dose letale di Midazolam, del fratello Marco Valerio, famoso avvocato di La Spezia malato terminale di cancro, deceduto nel 2015 nella sua casa di Ameglia.

Ma così non è, dal momento che la Cassazione ha deciso di accogliere il ricorso della procura generale annullando l’assoluzione e disponendo un nuovo giudizio d’appello. Ciò che manca, secondo l’accusa, è una «motivazione rafforzata» in grado di confutare gli argomenti della sentenza di primo grado, quando la donna venne condannata a 15 anni di reclusione. Il movente, secondo i giudici che la condannarono, era duplice: da un lato quello economico, che avrebbe portato a falsificare il testamento per intascare la corposa eredità, e dall’altro quello “pietoso”, per porre fine alle sofferenze del fratello. E prova principe del processo è una telefonata intercettata mentre la procura indagava su di lei per la presunta falsificazione del testamento, quando, in preda al dolore per la morte del fratello, si lasciò sfuggire una frase considerata una vera e propria confessione: «È stata colpa mia – disse ad un’amica –, se non lo avessi sedato non sarebbe morto quel giorno. Soffriva troppo, non reggevo più a vederlo soffrire».

Per i giudici d’appello, però, le cose stavano diversamente: «Quel dosaggio di sedativo - scrissero i giudici - non poteva uccidere, Marzia è stata ineccepibile come familiare e medico». Una convinzione talmente profonda da spingere i giudici popolari a stringerle le mani, con gli occhi pieni di lacrime, dopo la pronuncia della sentenza, «come a scusarsi per ciò che avevo passato». Perché Marco - questo stabilì la sentenza - morì per la sua malattia, ormai irreversibile, e la sorella Marzia si limitò a fare ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro medico: evitargli il dolore profondo di quel suo viaggio verso la fine.
«Come qualsiasi persona perbene ho sempre pensato di non poter incappare mai nella giustizia. Invece ho scoperto un mondo, un mondo incredibile. Io ero Davide e la giustizia Golia, ma stavolta Davide non aveva la fionda. E la cosa che mi sconvolge - spiega ora la professionista al Dubbio - è che non sono la sola in questa situazione. Non tutti hanno la possibilità di difendersi fino in fondo e ricominciare. Si finisce in una spirale dove, alla fine, vale tutto, anche prendere in considerazione di togliersi di mezzo perché tanto non si vede la luce». La sua storia rappresenta il classico caso di giustizia mediatica: l’etichetta di killer le è stata appiccicata addosso ancor prima di una sentenza, con tutte le semplificazioni e i pregiudizi del caso. Perché donna, perché diversa dalla sua famiglia, perché ama un’altra donna. Una persona invidiosa dell’uomo di successo, ricco e popolare, che si sarebbe «fiondata per avidità al capezzale del fratello morente».

Una verità distorta: fu lui a volerla a tutti i costi al suo fianco, nonostante il rapporto burrascoso di Marzia con la sua famiglia, che l’aveva sempre discriminata per le sue scelte, comprese quelle sentimentali. Tant’è che Marzia non raccolse subito la richiesta di aiuto di Marco, provata da anni di discriminazioni e vessazioni. «Le nostre strade si erano divise: Marco è diventato un avvocato famoso, io mi sono sempre dedicata al lavoro umanitario - racconta -. E la mia famiglia non ha mai gradito nemmeno questa mia scelta di non diventare associato oppure primario: la facciata, per loro, contava molto. Non abbiamo avuto più alcun tipo di contatto, fino a quando mio fratello non si è ammalato. Mi ha fatto cercare da altre persone e ho ceduto solo la terza volta, quando mi ha chiamata lui personalmente. Sono ripiombata in una vita che non conoscevo, che non era la mia. E non ero lì per i suoi soldi - avevo già rinunciato al testamento di mio padre ed anche per questo ero la pecora nera della famiglia -, molti altri sì». I soldi del testamento del fratello - scritto a mano da Marzia perché Marco (che poi lo ha firmato) non riusciva a farlo, «non li considero miei. Li volevo dare a una Ong (le pratiche erano state già avviate, ndr), ma sono finita ai domiciliari prima che potessi farlo». Ma come è finita in questa vicenda? A denunciarla una persona in affari col fratello, già condannata per appropriazione indebita - «la cui parola vale più della mia», dice -, che ha fatto partire le indagini e, dunque, le intercettazioni. Il giorno in cui Marzia avrebbe effettuato l'iniezione letale - iniezione che, però, nessuno le ha visto fare - la donna ha chiamato il palliativista cinque volte, così come gli oncologi e i medici del pronto soccorso. «Ho chiamato tutti quelli che potevo, ma nessuno è arrivato qui. Mio fratello non respirava più, ma sono stata lasciata sola quel giorno - spiega -. Dovevo scegliere come affrontare, da sorella, benché anestesista, una situazione così difficile. E ho iniziato la sedazione palliativa - concordata con il palliativista al mattino -, nonostante questo tormento».

Una procedura legale in Italia, «che non accelera di un minuto la morte del paziente, anzi, allunga il processo del morire perché elimina lo stress al corpo. Se avessi fatto un'iniezione - prosegue la donna -, la stessa avrebbe fatto morire mio fratello in pochi attimi. Invece il respiro agonico, e lo hanno visto tutti, è durato più di 40 minuti. Mi hanno cucito addosso un personaggio che stride totalmente con il resto della mia vita». E la telefonata? «In me è montato il senso di colpa per essere arrivata tardi, per il fatto che mio fratello avesse deciso di fare l’intervento sbagliato, che lo ha consegnato a morte certa - spiega -, mi sono date tutte le responsabilità. Ma quando ho visto le carte e le analisi sono rientrata in me: non era possibile salvarlo. Capisco che una telefonata possa essere uno spunto per un’indagine, ma non può essere considerata una prova». Il falso in testamento, inoltre, non le avrebbe portato nessun vantaggio: se un testamento non ci fosse stato, a Marzia sarebbe toccato molto di più di quanto messo nero su bianco in quel documento firmato dal fratello, che secondo l’accusa sarebbe frutto di una mistificazione.

A Marzia Corini, ora, toccherà affrontare di nuovo un processo. «Confidiamo nel giudizio di rinvio di poter dimostrare l’assoluta innocenza della nostra assistita e che possa avere fine questa dolorissima vicenda familiare prima che giudiziaria», commenta al Dubbio il professore Vittorio Manes, che difende la professionista assieme al collega Giacomo Frazzitta.
«A volte mi è capitato di visitare le prigioni come medico sugli scenari di guerra - conclude Corini - e la distanza che sentivo tra me e la persona in manette mi è sempre sembrata abissale. Non ero garantista: ho sempre pensato che se stavano lì qualcosa avevano fatto. La mia visione, ora, si è rovesciata. Ho capito che si può finire in quei ceppi anche se pensi di aver vissuto una vita retta».