Nessuna prova dei reati contestati a Domenico Lucano e alla sua presunta banda. Meglio: non esiste nessuna banda, non esiste alcun guadagno, non esiste nemmeno quella spavalderia con la quale, con un tratto di penna moraleggiante, il Tribunale di Locri aveva descritto l’ex sindaco di Riace. Si è totalmente sbriciolata sotto i colpi del diritto l’inchiesta Xenia, stando alle motivazioni della sentenza d’appello che ha spazzato via le pesanti condanne inflitte in primo grado, addirittura il doppio di quanto richiesto dall’accusa per l’ex sindaco: 13 anni e due mesi.

Non c’è associazione a delinquere - anzi, non c’era nemmeno secondo chi ha svolto le indagini -, non c’è prova della truffa, non c’è arricchimento, solo un falso che è valso al “Curdo” un anno e mezzo di condanna, pena sospesa. E non esiste nemmeno quel profilo di Lucano, così malefico da non meritare nemmeno le attenuanti generiche perché incensurato. Per i giudici di Reggio Calabria (Palumbo, Lauro, Minniti), infatti, le cose stanno diversamente. Una motivazione in punta di diritto, che conferma la forzatura - già sostenuta da numerosi giuristi - sull’utilizzo delle intercettazioni (come peraltro evidenziato anche dalla procura generale di Reggio Calabria), in quanto «risulta in via documentale, ed è incontestato tra le parti, che le intercettazioni furono inizialmente richieste ed autorizzate per i reati di cui agli artt. 317, 323 e 640 bis cod. pen. (...) e sulla scorta della prima relazione ispettiva». Non era possibile, ovviamente, intercettare per l’ipotesi di abuso d’ufficio (poi tramutato in sentenza addirittura nel reato di truffa, di cui non vi è prova, secondo il collegio), per cui le intercettazioni sono state effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Ma emergendo ulteriori ipotesi di reato rispetto a quella iniziale era necessario, secondo i giudici, trovare ulteriori prove dei fatti (prove la cui esistenza era certa, secondo la sentenza di primo grado). Di queste prove non c’è nemmeno la minima traccia, stando alla sentenza d’appello. E Il ragionamento del giudice Fulvio Accurso è stato totalmente stracciato dalla Corte d’Appello.

Il Tribunale di Locri, «per alcune ipotesi di reato, ha dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema» dell’utilizzabilità delle intercettazioni «per reati non autonomamente intercettabili». Considerarle legittime significherebbe «da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di “autorizzazione in bianco”, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”». Ma anche a fingere che non ci sia stata forzatura nell’utilizzo delle intercettazioni, ciò che manca sono le prove. Che erano necessarie per dimostrare «l’effettivo impiego, e soprattutto l’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm». E per quanto riguarda i migranti la cui permanenza si è prolungata oltre la fine dei progetti, per i giudici «può seriamente dubitarsi dell’esistenza di un vantaggio patrimoniale». Della presenza di lungopermanenti erano infatti informati sia lo Sprar sia la Prefettura, che avrebbe potuto espellere i migranti, nel caso in cui fosse stato necessario.

Nelle sue motivazioni di primo grado, Accurso aveva descritto Lucano come «un falso innocente», negandogli ogni attenuante. Un giudizio morale che la Corte d’Appello demolisce totalmente. La sua personalità, scrivono i giudici, «il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, io devo avere uno sguardo più alto)» sono «indicatori meritevoli di considerazione». E la Corte d’Appello non condivide il ragionamento del Tribunale quando fa riferimento ad una «logica predatoria delle risorse pubbliche, ad appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull'avidità»: a ben vedere, scrivono i giudici d’appello, «i dialoghi captati (...) mettono in luce lo spirito di fondo che ha mosso l’imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi». Una mission «tesa a perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento di bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto».

Che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati «è circostanza emersa anche in un ulteriore dialogo (sempre anteriore alla discovery), in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria». Piuttosto, «egli era convinto che proprio l’assenza di qualsiasi finalità predatoria gli aveva procurato non poche inimicizie (Ce l’hanno con me perché hanno capito che qua io ho un atteggiamento diverso do futtimentu dei sordi)». I dialoghi intercettati, prima e dopo la discovery, in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico, «suggeriscono pertanto di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio “arrembaggio” alle risorse pubbliche (così, invece, p. 61 sentenza appellata)».

Ma veniamo all’associazione a delinquere. Per la Corte d’Appello «sono fondati i motivi di appello relativi alla stessa esistenza del sodalizio, già esclusa in fase cautelare, e ciò pur prescindendo da ogni considerazione sulla utilizzabilità delle intercettazioni (anche) per le posizioni dei meri partecipi». Dagli elementi raccolti non emerge infatti alcuna prova «della avvenuta strutturazione di mezzi e persone, secondo un coordinamento complessivo che trascenda le singole azioni». E lo stesso teste principe dell’accusa, il tenente colonnello Nicola Sportelli, ha escluso che dalle indagini fosse emersa una qualche prova di associazione a delinquere.

«Lucano - scrivono i giudici - non si appropriò di alcuna somma di denaro, al punto da rivendicare la sua condizione di sostanziale nullatenenza». L’ampia istruttoria, del resto, «non ha offerto elementi per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza dì una struttura associativa». Che Lucano e gli altri imputati stessero perseguendo un programma delittuoso aperto «è circostanza che trova una ulteriore e plastica smentita anche sul piano della componente soggettiva, nella espressa e formale richiesta di una più approfondita ispezione ministeriale; richiesta di cui vi è traccia anche nei dialoghi intercettati, in cui proprio Lucano lamentava il carattere incompleto — poiché meramente documentale (solo sulle carte) delle ispezioni conclusesi con relazioni negative per il progetto Riace».

Infine, mal si conciliano con la finalità predatoria più volte evocata dal tribunale — il banchetto - i dialoghi in cui, a fronte di chi sosteneva l’insufficienza della somma pro capite riconosciuta, Lucano Domenico ricordava — in dialoghi sia precedenti che successivi alla discovery - che l’importo di 35 euro giornalieri, se moltiplicato per il numero di ospiti, consentiva ampiamente di soddisfare le lora esigenze. «Siamo soddisfatti - ha commentato Andrea Daqua, difensore, insieme a Giuliano Pisapia, di Lucano - in quanto la corte d'appello ha accertato e dichiarato la piena bontà e legittimità, sotto ogni profilo, dell’intero operato di Lucano». Insomma, una vera e propria debacle per il Tribunale di Locri e per l’accusa. E intanto il sogno di Riace è stato distrutto.