Non è facile, ma occorre mettersi nei panni di Mario Roggero, il gioielliere che è stato rapinato, poi ha sparato e ucciso e infine è stato condannato a 17 anni di carcere per duplice omicidio volontario. Non è facile, ma bisogna farlo.

Il vicepremier Matteo Salvini non ha dubbi: l’orafo è la vera vittima, in una telefonata gli garantisce che sarà al suo fianco, i delinquenti sono gli altri. Anche la gran parte dell’opinione pubblica la pensa più o meno così, anche perché è difficile non condividere l’esasperazione di un commerciante il cui negozio ha già subito diverse spaccate e soprattutto una precedente rapina nel 2015, durante la quale il gioielliere è stato violentemente picchiato, la figlia legata e imbavagliata e la moglie minacciata con un’arma.

La sentenza proprio per questo motivo ha concesso all’imputato, oltre alle attenuanti generiche che non si negano a chi è incensurato, anche quella della provocazione subita. Ma quel che colpisce, in un clima molto emotivo da “quei due morti ammazzati se la sono cercata”, è un verdetto così severo, tre anni di più dei 14 chiesti dal pm, da parte di una Corte d’Assise. Quasi una giuria popolare, composta da sei civili e due membri togati, il presidente e il giudice a latere. Ha prevalso l’applicazione pedissequa della norma, quella voluta proprio da Matteo Salvini un paio di anni prima del fatto che ha animato questo processo, l’assalto della gioielleria, il 28 aprile 2021 a Grinzane Cavour, piccolo comune del cuneese, tre uomini armati che immobilizzano moglie e figlia del titolare, poi scappano con la refurtiva.

E poi lui, Mario Roggero, che da vittima si trasforma in aggressore, impugna anche lui un’arma, diventa giustiziere, insegue, spara e uccide due rapinatori. E sfoga la sua rabbia prendendo addirittura a calci uno di loro che giace a terra ferito, in mezzo alla strada. Una scena da film sulla violenza delle città, ripresa proprio dalle telecamere del negozio assaltato. Ma che lascia poco spazio alla giurisprudenza creativa, che forse sia il gioielliere che il mondo politico che aveva voluto pervicacemente la legge sulla legittima difesa, aspettavano.

Il testo della legge pone vincoli precisi alla non imputabilità per legittima difesa. Occorre la costrizione, prima di tutto, il che significa che la persona che ha reagito non aveva altra scelta per superare un pericolo attuale che stava correndo. Niente reazione a scoppio ritardato, dunque. Se il tuo aggressore è già scappato, il rischio è ormai superato. Occorre inoltre che la reazione sia proporzionata all’aggressione. In poche parole, non si dà una coltellata a chi ti ha dato uno schiaffo, né si spara a chi ti ha picchiato o minacciato. È una legge molto equilibrata, perfettamente inserita nel solco della Costituzione. Ma nella sua applicazione è molto importante il gioco delle aggravanti e delle attenuanti.

Sorprendente ad esempio il fatto che né i giudici togati né, soprattutto quelli popolari, abbiano deciso di tener conto dello stato di scarsa capacità di intendere e volere dell’imputato in quel determinato momento, cioè della condizione di esasperata emotività, per danni psicologici del passato e del presente, che ha in un certo senso armato la mano del povero orafo. La mano e anche i piedi, perché quei calci rabbiosi inferti a un uomo ferito a terra sono tirati sicuramente da una persona fuori di senno. Tra l’altro lo stesso perito nominato dalle parti civili, lo psichiatra genovese Gabriele Ricca, si era schierato su questa ipotesi, sostenendo che il signor Roggero quel giorno fosse condizionato “perché nella sua mente c’era stata una riattivazione di quanto accaduto sei anni prima”, durante la rapina precedente. Ma niente da fare, il perito Roberto Keller, nominato dalla Corte d’Assise, era stato inflessibile. E con lui gli stessi giudici.

C’è da chiedersi se e quanto quei sei cittadini chiamati dall’obbligo di indossare la fascia tricolore e andare a giudicare la vita degli altri, siano stati influenzati, come succede quasi sempre, dal parere tecnico-giuridico dei due giudici togati. Perché quel che colpisce in questo verdetto, non è la condanna in sé, ampiamente prevedibile per quelle nitide immagini proiettate nell’aula del processo, in cui si vede chiaramente che il gioielliere non stava più correndo alcun pericolo quando ha rincorso i tre rapinatori e ne ha ucciso due, colpendoli alle spalle.

Ma sono soprattutto quei tre anni aggiunti rispetto alla richiesta del pm e quella mancata accettazione dell’ipotesi di una sorta di semi-infermità mentale che aveva colpito l’imputato nel ricordo del già accaduto, mandandolo fuori di senno, a dare la sensazione di un giudizio crudele, anche se tecnicamente giusto. Mettendoci nei panni di chi è stato giudicato, ma anche dei tanti, a lui vicini o lontani, che gli sono solidali, possiamo dire che quei giudici, con o senza toga, così inflessibili, hanno dimostrato di non saper avere pietà. Una volta tanto avremmo preferito un pizzico di giurisprudenza creativa.