Per prima cosa un doveroso “mea culpa”. A chi scrive è accaduto di ricordare colleghi morti. Morti uccisi, “colpevoli” di fare il loro mestiere: raccogliere informazioni, farle conoscere. Uccisi a volte dai terroristi, due nomi per tutti: Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Più spesso massacrati dalla criminalità organizzata. Lungo elenco: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giuseppe Impastato, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano. Poi i tanti uccisi fuori dal nostro Paese: un elenco ancora più lungo, e per tutti tre nomi: Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo. Da qualche parte esisterà sicuramente l’elenco completo. Ma ogni volta – qui il mea culpa – c’è sempre un nome che “salta”. Quello di Mino Pecorelli. Viene ucciso la sera del 20 marzo di quarant’anni fa. A Roma, da killer rimasti senza volto, per ordine di mandanti rimasti senza nome, per ragioni tuttora imperscrutabili.

Un delitto che fa parte, a pieno titolo, dei misteri di questo paese: si può partire dalla strage a Portella della Ginestra e l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano, e poi, via via, anno dopo anno: un enorme pozzo di San Patrizio dell’orrore e del terrore. Con una logica, un denominatore: sono delitti, stragi, che servono a uno o più Poteri, tecnicamente irresponsabili, scarsamente conoscibili, certamente transnazionali, per mantenere uno status quo, garantire un “governo”. Il governo della paura. Per tornare a Pecorelli. Una bussola la fornisce Fausto Cardella, il magistrato che con il collega Alessandro Cannevale istruisce il processo che vede imputati, quali mandanti del delitto Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, e organizzatori ed esecutori mafiosi ed elementi della Banda della Magliana. Un lungo iter giudiziario che si conclude con una piena assoluzione. Ma qui si vuole inquadrare la figura dell’ucciso, non l’esito processuale. Saccheggio un libro prezioso, Il Divo e il giornalista, Andreotti e l’omicidio di Pecorelli ( Morlacchi editore), costituito da documenti dell’epoca, atti giudiziari, verbali di testimonianze: con pazienza certosina vagliati da un giornalista che non ha perso una udienza del processo, Alvaro Fiorucci; e da Raffaele Guadagno, il funzionario del ministero che ha seguito le indagini.

Scrive Cardella, nella prefazione: «… a cadavere ancora caldo, si capisce che il caso è difficile, troppi i soggetti, i centri di potere, di affari e di affarismi che il giornalista aveva infastidito. Negli ultimi tempi si era dedicato con insistenza all’affaire Moro, il dramma che aveva sconvolto la vita politica del Paese, fonte inesauribile di sospetti, allusioni, dietrologie. Però bisogna riconoscere che la lettura della collezione di “OP” ( la rivista di cui Pecorelli era direttore, ndr) rafforza il convincimento che Pecorelli, grazie ai suoi collegamenti con apparati dei servizi di sicurezza, alla conoscenza e frequentazione con alti funzionari dello Stato ( molti dei quali affiliati alla loggia massonica di Licio Gelli), utilizzasse le colonne del suo settimanale per lanciare ambigui messaggi, lasciando intendere di essere a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori, forse a qualcuno in particolare, quale depositario di riservatissime informazioni…». Èl’” affaire” Moro la “chiave” per capire le ragioni del delitto? La domanda non ha risposta certa. Pecorelli si è occupato di una quantità di altre “brutte” storie, i suoi articoli, spesso cifrati, ma al tempo stesso comprensibilissimi, hanno pestato tanti piedi; troppi.

Eccoci, dunque, alla sera del 20 marzo. Via Orazio, signorile quartiere Prati, a Roma; le 20.35 circa; quattro colpi di pistola uccidono Pecorelli. Quattro i bossoli per terra. Di proiettili particolari: gli stessi scoperti negli scantinati del Ministero della Sanità, un lotto nella disponibilità della Banda della Magliana. Come s’è detto, tutti gli imputati sono assolti. Ma il processo che si celebra a Perugia, e l’accurato lavoro di Fiorucci e Guadagno, sono ugualmente importanti: aprono uno squarcio sugli anni più bui, inquietanti e insanguinati del nostro paese. Pecorelli, tra gli addetti ai lavori, è personaggio conosciuto. La sua rivista avidamente letta e decrittata nei “circoli” del potere. Negli atti processuali è così descritto: «… uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili… E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa... Soprattutto una personalità ingovernabile».

C’è chi dipinge Pecorelli come un ricattatore. Di sicuro non lascia ricchezze, proprietà. Probabilmente cerca finanziamenti per la sua rivista di cui è anche editore; certamente pubblica documenti e “materiali” su “ordinazione”. Un do ut des che ben conosce, e anche pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere.

Dispone di ottimi contatti; entra in possesso di tanti materiali scottanti, e li pubblica. Non è persona “comoda”. E a forza di “scomodare”, finisce come è finito. Il lavoro di Fiorucci e Guadagno ricostruisce la sconcertante successione di episodi e fatti nei quali è facile smarrirsi. Fiorucci e Guadagno li “ordinano”, e ogni “capitolo” parla: il memoriale di Moro scomparso; lo scandalo Italcasse; le banche e gli “affari” di Michele Sindona; la truffa dei petroli… Vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista: si pubblicano indicibili verità, che tanti hanno interesse a tenere nascoste. E non è un caso se le tante interrogazioni parlamentari presentate da Marco Pannella e dagli altri deputati radicali giacciono senza risposta. Pecorelli e il suo delitto, spiegano i due autori, sono parte integrante di «un melting- pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Chi non ha vocazione dietrologica non può che restare sconcertato di fronte a una tale quantità di “coincidenze”. Non saranno prove; ma sollevano inquietanti dubbi. Alla rifusa: dei colpi di pistola Gevelot dello stesso tipo di quelli dell’arsenale della Banda della Magliana, s’è detto. Alla Banda appartiene Tony Chichiarelli: confeziona il falso comunicato delle Brigate Rosse: quello che indica nel Lago della Duchessa il luogo dove si trova il corpo di Moro ucciso. Chicchiarelli abbandona su un taxi oggetti che rimandano al caso Moro, e “schede” su personaggi in vista. Su una, un appunto relativo all’eliminazione di Pecorelli. C’è anche una nota dove si legge che l’operazione era stata rinviata, perché Pecorelli si è incontrato con un alto ufficiale dei Carabinieri. E’ Antonio Varisco, che dopo la morte di Pecorelli decide di abbandonare l’Arma. Qualche mese prima del congedo anche Varisco cade vittima Carlo Alberto Dalla Chiesa? Poche settimane prima di essere ucciso, scrive: «Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle BR, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse…». Che valore dare a questo passaggio? Pecorelli non fa in tempo a “tornarci su”. E anche il già citato Chicchiarelli: è vittima di un presunto regolamento di conti nel 1984… Ci si può fermare qui, ma impegnandosi un po’ qualche altra “ammazzatina” la si troverà senz’altro.

L’unica cosa certa è che non si sono individuati né mandanti, né esecutori. Perfino il possibile movente, sfugge. Chi ha ordinato: “Va’ e uccidi”, non ha nome; chi materialmente l’ha fatto, non ha volto. In uno dei suoi ultimi articoli Pecorelli scrive: «I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche un solo capello».

Non è andata così. “Se fosse u film…”, è l’incipit del libro di Fiorucci e Guadagno.

No, non è un soggetto alla Quentin Tarantino.

E’ una storia vera.